Come nelle vecchie barzellette, alla tavola rotonda che un paio di settimane fa ha concluso il seminario annuale della Scuola per librai Umberto ed Elisabetta Mauri c’erano due tedeschi (Michael Busch di Thalia e Felicitas von Lovenberg di Piper Verlag), due francesi (Sophie de Closets di Flammarion e Denis Mollat, della omonima libreria di Bordeaux) e due inglesi (James Daunt di Waterstones e Barnes & Noble e Andrew Franklin di Profile Books), oltre al coordinatore, l’italiano Stefano Mauri, presidente e amministratore delegato di GeMS, e all’ottimo moderatore, lo statunitense Porter Anderson, direttore di Publishing Perspectives.

Chissà che viavai di interpreti dentro la cabina di traduzione, penseranno quelli che non hanno avuto la ventura di trovarsi nel bel salone della Fondazione Cini di Venezia. E invece no: la cabina c’era ma non il viavai, perché tutti i relatori hanno scelto di parlare in inglese, con un’unica, significativa eccezione, quella di Denis Mollat, classe 1953, i cui interventi in francese forbito sono apparsi come una rivendicazione fuori tempo massimo dell’antica grandeur. Qualcuno nel pubblico (quasi per intero composto da librai e editori di lingua italiana) non ha nascosto un sorrisetto di fronte a questo orgoglioso e in fondo malinconico tentativo di opporsi all’avanzata irrefrenabile dell’anglofonia.

Eppure, la questione implicitamente sollevata da Mollat va ben oltre i confini francesi, perché in quella stessa tavola rotonda Felicitas von Lovenberg ha segnalato (in inglese) un problema che impensierisce molte case editrici tedesche: pare in sostanza che negli ultimi anni in Germania sia cresciuto a dismisura il numero delle persone che preferiscono leggere in lingua originale i testi americani e britannici.

Niente di male, anzi, da un certo punto di vista: così come un film doppiato, per quanto bene (e oggi purtroppo meno bene di un tempo), non è esattamente la stessa cosa di un film dove gli attori parlano la loro lingua, così leggere un libro nella lingua in cui è stato scritto ci consente di capire meglio le intenzioni e i risultati dell’autore o dell’autrice. Ma in prospettiva economica per il mercato editoriale della Germania (il secondo al mondo dopo quello statunitense) il quadro è diverso, perché da un lato molti lettori non aspettano più le traduzioni in tedesco, dall’altro per i libri in versione originale acquistati dalle librerie online americane o britanniche non valgono le rigide regole sugli sconti.

Al fenomeno, del resto, aveva già accennato Ed Nawotka in un reportage per Publishers Weekly dalla Buchmesse di Francoforte del 2023, mentre The Bookseller ha individuato in BookTok il responsabile di questa tendenza – una tendenza, come ha rilevato von Lovenberg, non circoscritta alla Germania, ma ormai prevalente anche nei paesi scandinavi. E pure in Olanda, se è vero quanto ha scritto quasi un anno fa Maarten Dessing sul sito The low countries, offrendo cifre precise: per citare un solo esempio eloquente, «il numero di libri per bambini in lingua inglese venduti nei Paesi Bassi è aumentato del 153% dal 2018 al 2023».

E da noi? Pare che qualcosa del genere stia accadendo, ma si tratta per ora di impressioni. Difficile però non concordare con Antonio Muñoz Molina che qualche giorno fa su El País ha sottolineato la pervasiva sudditanza linguistica e culturale nei confronti dell’anglofonia: «Facciamo spoiler, rifuggiamo dal ghosting, perdiamo tempo con il binge-watching sui canali di streaming, coltiviamo il networking, aspettiamo che ci arrivi un feedback dai nostri input». E tutto questo accade, aggiungiamo noi, mentre ci lamentiamo della mancanza di diversity.