Il mediatore culturale
Sport intervista a Guglielmo De Feis agente Fifa ed ex calciatore
Sport intervista a Guglielmo De Feis agente Fifa ed ex calciatore
Nel calcio globalizzato i gruppi etnici che compongono una squadra sono culturalmente diversi, elementi che incidono nelle relazioni con lo staff tecnico e l’allenatore, nelle decisioni da prendere in campo, nel rendimento di un calciatore. All’interno di ogni squadra si pone la necessità di una figura che svolga il ruolo di mediatore culturale, già diffusamente presente nelle aziende multinazionali, ma che il calcio stenta a far proprio, perché culturalmente retrivo, in particolare quello italiano. Dal corso per allenatori di Coverciano emerge che i nostri coach all’estero sono inguaribilmente etnocentrici, incapaci di mettere in atto quello che la sociologia chiama cultural intelligence. Ne parliamo con Gugliemo De Feis, agente Fifa ed ex calciatore che ha giocato nella Sambenedettese, Maceratese, Jesina e nel Fano in C2. Come procuratore ha rappresentato calciatori honduregni, messicani, brasiliani, argentini. Ha lavorato in Cina, Usa, Arabia Saudita, Bahrain, Kuwait, Emirati Arabi, Polonia, Romania, Inghilterra, Messico, Argentina.
Una figura che faccia da mediatore culturale, quali caratteristiche deve avere e quale ruolo dovrebbe svolgere?
Le più importanti società europee di calcio, non necessariamente quelle di primo livello, hanno al loro interno, tra lo staff tecnico e i 25 giocatori della rosa, quattro, cinque e a volte sei gruppi culturalmente diversi tra loro sui dieci totali che esistono nel mondo. Al Chelsea c’è un gruppo latino-europeo, un gruppo anglo-britannico, un gruppo o un esponente germanico, un esponente nordico, un esponente dell’est europeo, e un componente arabo, pensiamo a Mohamed Salaha, un giocatore confuciano come Nagatomo, questi gruppi culturali si comportano diversamente quando devono comunicare con gli altri, prendere delle decisioni, o comunicare un feed-back, hanno tempi differenti nel prendere delle decisioni.
Comportamenti culturalmente diversi possono incidere sul rendimento del gioco?
Tantissimo. La vicenda Ancelotti al Bayern è una spia importante perché parliamo di una società di primo livello e di un allenatore che ha vinto in Inghilterra, in Francia, in Italia, e non si spiega perché non abbia fatto bene in Germania, almeno a sentire i tedeschi. Parliamo di un allenatore, che è consapevole delle differenze culturali, ma dalle cose che so e da quelle che sono emerse da ambienti esterni, c’è stato un grossissimo problema culturale. Un leader silenzioso e bonario come Ancelotti può essere incompreso, per i tedeschi il leader deve essere o il sergente di ferro come Van Gaal o uno un pò asettico verso la sua troupe come Guardiola. Rumenigge ritiene che Guardiola sia bravo non solo perché ha portato le sue idee, ma ha allenato il Bayern sapendo come doveva spiegare le sue idee ai tedeschi, probabilmente Ancelotti non è riuscito a entrare nel modo culturale di essere dei tedeschi.
La diversità culturale condiziona anche i rapporti tra calciatori all’interno di una squadra?
Sicuramente, lo spogliatoio comprende 20-25 calciatori, ognuno con la sua personalità e il suo modo di fare, si tratta di giocatori giovani, la goliardia nello spogliatoio è frequente, una battuta o uno scherzo sul modo di vestire o sul taglio dei capelli, fatta tra calciatori monoculturali, diventa una presa in giro sul gusto personale e può suscitare ilarità, una presa in giro sul modo di vestire che fa parte di un mondo culturale di un calciatore è una presa in giro del diverso, implica un fraintendimento e può provocare un rancore superiore.
Un allenatore in grado di cogliere le diversità culturali dei calciatori entra più in sintonia con la squadra?
Certamente. I grandi allenatori sono tutti grandi manager, sono bravi non solo nelle idee calcistiche, ma soprattutto nel creare empatia con i giocatori. A Coverciano ho avuto la possibilità di parlare con alcuni allenatori e i riscontri confermano questo aspetto. Billy Costacurta dice che gli allenatori italiani sono più bravi perché curano il dettaglio, sostiene che gli allenatori italiani che ha avuto gli insegnavano come mettere i piedi per orientare il corpo sulle palle inattive. Se Costacurta fa proprio questo accorgimento tecnico, un giocatore inglese potrebbe non accettarlo, perché loro sono individualisti, spiegare loro come mettere la posizione del corpo sulle palle inattive, lo vivono come una limitazione individuale. Gianluca Conte che fa parte dello staff di Antonio Conte al Chelsea, mi ha riferito che quando dicevano queste cose, Gary Cahill, capitano del Chelsea e della nazionale inglese, rideva. Si potrebbe pensare che Cahill sia un presuntuoso, non è cosi, è un modo culturale di ragionare degli anglo-americani diverso dal nostro.
Nell’ambito del calcio chi dovrebbe provvedere alla formazione?
Secondo me diventerà una parte del bagaglio necessario degli allenatori, dei preparatori atletici dei direttori sportivi, dovrà essere una componente esattamente come quella della comunicazione, della leaderschip, quella di saper essere credibili con i propri giocatori, esiste la possibilità di specializzarsi e studiare, vedendo film, leggendo libri e informandosi.
Si prospetta la figura di allenatore culturalmente più avanzata?
Ritengo che un’ alta formazione culturale possa essere di grande aiuto a un allenatore, come pure avere nello staff dell’allenatore una figura che si occupi dell’aspetto multiculturale della squadra, per esempio un olandese che abbia vissuto in Italia, un cinese che abbia vissuto in Europa, una persona che abbia i genitori di ceppi culturali diversi, perché una figura multiculturale è abituata ad applicare due sistemi di valori culturali diversi.
A Coverciano al corso per allenatori quando dice queste cose quali reazioni ci sono?
Sono rimasto molto colpito perché ho notato una diffidenza iniziale, ma poi anche un grande interesse. Il feed-back maggiore l’ho avuto dagli allenatori che lavorano all’estero e da coloro che hanno avuto esperienze di questo tipo. Ho avuto anche delle risposte che evidenziano due aspetti: il primo che noi italiani siamo etnocentrici, l’altra che l’osservazione tipica da parte di alcuni allenatori è che l’attenzione alla multiculturalità non serve a niente, dicono che è sufficiente l’educazione, il buon senso e il rispetto, questo è l’errore più grave che si possa commettere. Educazione, buonsenso e rispetto non sono tre concetti universali, ma sono relativi alla cultura alla quale appartengono. L’altra spia dell’etnocentrismo è che un allenatore, che ha sempre allenato in Italia, mi ha detto che i calciatori stranieri che vengono a giocare in Italia se la faranno loro la multiculturalità per imparare come comportarsi nel nostro Paese. In un’altra lezione, un allenatore che voleva andare all’estero, ma poi non è andato, ha detto se mi chiamano all’estero e sanno che sono italiano vuol dire che vogliono che faccia l’allenatore italiano. Dunque, sia che alleniamo in Italia sia che andiamo all’estero noi dobbiamo fare sempre e comunque gli italiani. Conoscere la cultural intelligence non significa snaturare se stessi o non comportarsi da italiani, si prende coscienza di essere italiani quanto più si conoscono gli altri, e bisogna cercare di capire che non tutto finisce nel modo in cui intendiamo noi, perché qualcuno può pensare diversamente, soprattutto non devono esserci incomprensioni sul modo di essere degli altri calciatori.
Gli allenatori italiani avranno più difficoltà a cimentarsi con la multiculturalità?
Non so se avranno maggiore difficoltà degli altri, ma durante le lezioni a Coverciano ho riscontrato questo atteggiamento di etnocentrismo. Dobbiamo essere orgogliosi dei nostri valori culturali e del nostro patrimonio culturale, questo non significa che chi si comporta diversamente da noi non si comporta bene. Un allenatore italiano, che va all’estero con questo punto di vista, corre il rischio di privilegiare i calciatori che si comportano come lui.
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