I fatti sono noti: le due società calcistiche milanesi ritengono che la buona e vecchia architettura dello stadio Giuseppe Meazza, realizzato nel 1926 e successivamente ristrutturato e ampliato nel 1935, 1955, nel 1990 e nel 2015/16, abbia raggiunto il limite massimo di trasformabilità. Seguendo quindi una tendenza ormai consolidata globalmente, Juve docet, i team milanesi hanno cominciato a lavorare per avere uno stadio moderatamente più piccolo, possibilmente di proprietà, possibilmente dotato di quegli annessi e connessi economici che hanno convinto gli amministratori di tutte le squadre del mondo che lo stadio di proprietà «è un affare» e anche un plus sportivo. Le due società hanno cominciato un lungo dialogo col comune, proprietario dell’impianto, alla ricerca della soluzione migliore per rimpiazzare o modificare radicalmente lo stadio.

Saltando alcuni passaggi e avvicinandosi all’oggi vediamo che il dialogo a tre voci tra Inter Milan e comune si è concretizzato alla fine del 2019 con una proposta (in realtà due progetti alternativi, a cura di Crm e Populous) di due «mezzi stadi» di proprietà, realizzati molto vicino al vecchio impianto, che verrebbe demolito e sostituito dalla solita corona di centri commerciali, quartieri ecologicissimi, grattacieli scintillanti eccetera. Rimaneva, per il comune, l’ansia di gestire la memoria di uno stadio storico e di grande bellezza sportiva cui tutta la cittadinanza, rossonera o nerazzurra che sia, è molto affezionata.

L’amministrazione ha reagito in due modi: chiedendo ai progettisti di conservare «qualcosa» del vecchio stadio, e alla Soprintendenza di valutare se le strutture originali (le quattro tribune rettilinee del 1926) che hanno sempre continuato a vivere sotto alle sovrastrutture realizzate nel 1955 e nel 1990, meritassero un vincolo. I progettisti hanno subito abbozzato, inglobando nel progetto frammenti del vecchio impianto e trasformandoli in strani frammenti di neo-archeologia. La Soprintendenza per una volta ha invece adottato una linea più chiara e radicale, dichiarando che non c’è vincolo e quindi affermando non che San Siro vada abbattuto, ma che se si decidesse di mantenerlo non sarebbe per la qualità intrinseca delle sue strutture architettoniche. Impeccabile. Perché lo status di landmark che il Meazza può vantare non lo deve certo alla sua integrità architettonica, com’è nel caso del derelitto Flaminio o dello stadio di Firenze. Lo deve a un insieme di valori e depositi di memoria sportivi, sociali, cittadini. E forse a quella verticalità della platea e prossimità («avvicinamento sociale») tra spettatori e campo che l’ha collocato sempre tra gli stadi più ambiti e apprezzati al mondo.

Ora le squadre e soprattutto l’amministrazione sono davanti allo stesso dilemma che attanaglia chi ha fiducia profonda nel potere della (buona) architettura e magari allo stesso tempo tifa una delle due squadre in questione e considera San Siro un tempio. Le squadre hanno scelto, rinunciando purtroppo alla sacrosanta possibilità di avere due stadi diversi e, magari, che una delle due «riciclasse» il Meazza. L’amministrazione sembra ancora in bilico, forse spaventata dall’idea di dare una delusione alla pancia (o al cuore) della cittadinanza.

Non sappiamo come andrà a finire. Ci sono però alcuni aspetti che sarebbe bello poter includere nella conclusione della vicenda. Prima di tutto, che se anche a Milano ci sarà uno stadio nuovo, potrà competere con quelli di Pechino, Monaco, Londra, che sono stati realizzati o sono in corso di realizzazione da parte di grandi architetti. Le proposte ora in ballo – lo stadio-bosco di Boeri è stato messo da parte dalle società – sono di buon livello, ma forse prodotte da studi fin troppo «specializzati». In secondo luogo, che lo stadio non sia solo un’opportunità per i movimenti immobiliari nell’area che lo circonda.

Ci sono molti modi per «fare reddito» con lo stadio, non solo i metri quadri di case e uffici, che pure ci saranno; si spera che i manager facciano funzionare la fantasia. Infine, sarebbe bello che la vicenda di San Siro potesse fare da stimolo al recupero di alcuni veri capolavori del modernismo sportivo italiano oggi a rischio, a partire appunto dai due edifici realizzati da Nervi su via Flaminia – lo stadio Flaminio e il Palazzetto dello Sport – che vediamo degradare giornalmente, e speriamo non debbano fare la stessa fine del bellissimo velodromo olimpico dell’Eur di Ligini, Ortensi e Ricci, demolito insensatamente nel 2008 con 120 chili di tritolo.