Ai margini delle città e della società civile, il mattatoio è quell’infrastruttura in cui uomini e macchine mettono in moto un regime di morte seriale per gli animali o, per citare il Dizionario critico di Georges Bataille, è quel luogo messo in quarantena come una nave che porta il colera. All’interno delle sue mura invalicabili va in scena l’industrializzazione della morte animale, una forma di morte industrializzata messa in funzione da ingranaggi economici bel oliati. In fondo è proprio dal processo di macellazione degli animali che l’imprenditore Henry Ford trasse ispirazione per la catena di montaggio al cuore della produzione fordista.

A ricordarlo è l’artista e scrittrice afroamericana Aria Dean (1993), che fa del mattatoio il nodo del rapporto tra modernità e morte, un modello sociale di sfruttamento che ritroviamo, per citare l’esempio più vicino, nella reclusione del sistema carcerario. Abattoir, U.S.A.! (2024) è un’installazione video con la musica immersiva di Evan Zierk, che alterna sequenze generate da algoritmi a melodie pop. Nell’impossibilità di accedere a un mattatoio in funzione, l’artista lo ha ricostruito a partire da filmati digitali con Unreal Engine, un motore grafico utilizzato per il game design e l’animazione in 3D. Lo spettatore segue il percorso lineare della telecamera, come se a guardare sia un animale che marcia lentamente verso il suo destino. Il risultato non è la ricostruzione fedele di un mattatoio ma un pastiche virtuale di forme architettoniche, in cui si sovrappongono diverse strutture che spaziano dal XIX al XXI secolo. Non sorprende quindi di ritrovare accostamenti incongrui, come l’interno del mattatoio sovrastato dal soffitto del Crystal palace. Esposto a The Renaissance Society di Chicago e all’ICA di Londra, Abattoir, U.S.A.! è proiettato in una sala con una porta in alluminio, il pavimento in gomma e le pareti laterali che riprendono il percorso del bestiame in un macello.

Dean lo realizza elaborando fonti disparate quali il basso materialismo di Bataille, l’afro-pessimismo (diffuso tra la comunità afroamericana e ancora sconosciuto in Italia rispetto alla più diffusa Blackness) di Frank B. Wilderson e, nello specifico, L’era della meccanizzazione (1948) dello storico e critico dell’architettura Sigfried Giedion. Quest’ultimo, nel capitolo sul mattatoio di Chicago, afferma che più una società si meccanizza più il suo rapporto con la morte si degrada. In modo simile, per Dean il mattatoio è un esempio se non il modello di quella che Achille Mbembe ha chiamato necropolitica, secondo cui «l’espressione ultima della sovranità consiste, in larga misura, nel potere e nella capacità di decidere chi può vivere e chi deve morire».

Abattoir, U.S.A.! si distingue rispetto alla rappresentazione del macello che ha segnato il XX secolo, se pensiamo alle fotografie di Eli Lotar pubblicate su «Documents» nel 1929 o al documentario di Georges Franju, Le sang des bêtes, girato a Vaugirard e alla Villette e che, realizzato nell’autunno 1949, non ha ancora perso la sua capacità di turbare il nostro sguardo. Nelle immagini di Dean, che elabora a suo modo la lezione del cinema strutturalista, la presenza animale è del tutto assente. Nessuna traccia di bestie squartate, di sangue che cola da corpi animali che, presi da convulsioni, non si sa se siano ancora vivi o già morti, di quella violenza che marchia questi spazi deputati alla soppressione seriale del vivente. La morte si manifesta come assenza di vita animale – un macello spettrale. Così facendo, da una parte Dean abbandona l’orrore delle dissezioni; dall’altra si fa carico di una riflessione più ampia sul funzionamento delle infrastrutture della modernità. Quello che perde in empatia verso il vivente, lo guadagna in termini di critica sociale.