Dal massacro di Tajoura alla minaccia di Tripoli: liberiamo tutti i migranti
Libia Accuse incrociate tra le forze di Haftar e i nemici di Misurata sulla responsabilità della strage nel centro di detenzione dei dintorni di Tripoli. A New York veto Usa sulla condanna del Consiglio di sicurezza
Libia Accuse incrociate tra le forze di Haftar e i nemici di Misurata sulla responsabilità della strage nel centro di detenzione dei dintorni di Tripoli. A New York veto Usa sulla condanna del Consiglio di sicurezza
L’omologo di Matteo Salvini a Tripoli, il misuratino Fathi Bashaga, parlando ieri con la delegata dell’Unsmil al coordinamento umanitario dopo il massacro di migranti a Tajoura ha detto, che non essendo in grado di garantire la sicurezza dei centri per migranti nella capitale libica, il governo Serraj «sta valutando se rilasciarli tutti». Più che una liberazione suona come una minaccia, una vecchia minaccia che in Italia ha sempre funzionato fin dai tempi del Colonnello Gheddafi, tanto che allora aveva una abbreviazione: si chiamava «bomba umanitaria».
I MIGRANTI DETENUTI A TRIPOLI e dintorni sono, secondo l’Organizzazione per le migrazioni, tra i 3.400 e i 3.800, la metà di quelli richiusi in tutte le prigioni libiche, una minoranza rispetto ai 700 mila che lavorano nel Paese da regolari. Già due mesi fa, l’8 maggio, l’Unhcr aveva chiesto al governo Serraj l’evacuazione dei migranti detenuti nel centro di Tajoura e da tutti gli altri che si trovano nelle zone dei combattimenti. E la «immediata chiusura di tutti i centri» sulla linea del fronte è quanto ha chiesto ieri anche l’ambasciatore britannico in Libia Martin Reynolds, facendo eco alle organizzazioni umanitarie che lo ripetono da molto prima della strage annunciata. Il ministro italiano Salvini ha visto a Milano solo pochi giorni fa sia il premier Serraj, sia lo stesso Bashaga, proprio a partire dal dossier immigrazione ma non risulta abbia sollevato il problema della sicurezza dei migranti intrappolati nelle aree dove si combatte.
DAL RACCONTO DELLA NOTTE delle bombe a Tajoura emergono intanto altri particolari agghiaccianti. Le guardie della milizia Dhaman – le stesse che tenevano un deposito di munizioni e veicoli militari accanto alla prigione, dove costringevano i migranti a pulire e ricaricare le mitragliatrici, in base alle denunce raccolte da Human Rights Watch – avrebbero sparato sugli africani che scappavano per strada terrorizzati, alcuni anche feriti, dopo lo scoppio delle bombe.
PER IL SITO libico Al Wasat la missione Onu in Libia (Unsmil) avrebbe ricevuto denunce su questo dai sopravvissuti, un’ottantina dei quali si trovano ora ricoverati negli ospedali della zona. Del resto il «detention camp» di Tajoura era tristemente noto come uno dei lager libici peggiori, dove le persone rinchiuse venivano sottoposte a torture, stupri, tenute in condizioni anti-igieniche e malnutrizione, tanto che per cercare di migliorarne i servizi era stato dato un appalto a una ditta esterna – la Helpcode – che doveva fare da tramite con Oim, Ocha e Unhcr, incluso segnalare i casi di estrema vulnerabilità da includere nei corridoi umanitari.
La responsabilità della strage di migranti morti a Tajoura nel frattempo sono passati da 44 a 53, di cui sei bambini e molte donne – è ancora incerta. E l’inchiesta che le Nazioni Unite dovranno condurre per attribuire quello che in tutta evidenza si palesa come un crimine di guerra, la più grande strage dall’inizio dell’offensiva di Haftar su Tripoli tre mesi fa, non si presenta semplice. Il comandante dell’Aviazione dell’autoproclamato Esercito nazionale libico con a capo Haftar, il maggiore Muhammar al Manfour, in un comunicato consegnato al Libyan Address Journal ribalta le accuse provenienti dal «governo di accordo nazionale» sostenendo di essere in possesso di tracciati aerei della notte di martedì su velivoli da guerra in volo da Misurata e dall’aeroporto di Mitiga verso Tarhouna, sempre nei sobborghi meridionali. L’alto ufficiale dice anche che un quarto d’ora prima delle bombe il deposito di munizioni adiacente al centro ha subito un’esplosione: si tratterebbe dunque di «fuoco amico». Dopo le sue dichiarazioni, lo stesso ministro Bashaga ha ammesso che l’aereo del bombardamento «è insolito, non è della Libia». E il capo del Consiglio presidenziale di Tripoli – il parlamentino di Serraj – Khaled al Mishri, ipotizza ora che si tratti di un aereo egiziano a sostegno delle truppe di Haftar in difficoltà dopo la perdita della base di Gharyan.
A NEW YORK ieri tre ore di discussione a porte chiuse nel Palazzo di Vetronon sono bastate al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per assumere una dichiarazione di condanna. Proposto dalla Gran Bretagna, il testo sarebbe stato bloccato dal rappresentante degli Stati Uniti, come ad aprile per la condanna dell’offensiva del generale Haftar su Tripoli.
Il maggiore Manfour chiama anche in causa il ministro Salvini e l’Europa per complicità nella strage: hanno dato ingenti risorse a Serraj per trattenere i migranti – sostiene – e non si occupano delle loro condizioni di vita.
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