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Il marchio della città

Il marchio della cittàLa performer Simona Mercuro

Videoarte Antonello Matarazzo firma la straordinaria sigla del festival "Il Laceno d'Oro" di Avellino

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 13 gennaio 2018

Non è la prima volta che Antonello Matarazzo – regista e videoartista tra i più estrosi e rappresentativi della scena contemporanea – si accosta al cinema nel formato della sigla. Nelle sigle realizzate per il Reggio Calabria Film Fest risale addirittura alle fonti storiche del precinema facendo scorrere alle spalle della performer le cronofotografie degli animali con cui il fotoreporter anglo-americano Eadweard Muybridge e il fisiologo francese Etienne-Jules Marey, lavorando al di qua e al di là dell’Atlantico, creano le premesse di quello che sarà il cinema, senza intuirne da scienziati il destino di spettacolo. Sigle strepitose che, con la performer intenta a mimare gli animali riprodotti dai due ricercatori, puntano sull’intreccio tra fotografia, cinema, coreografia, un luogo di confine, una sorta di frontiera commisurata alla dimensione esemplare del corpo umano e della (futura) immedesimazione spettatoriale. Certo, si tratta di un caso estremo dove, sfruttando al massimo la contemporaneità dei due piani visivi, radicalizza la scelta di risalire all’origine del medium, al clamoroso momento fondativo in cui la fotografia e il movimento s’incontrano o, meglio, la fotografia diventa movimento.

Nel segno del noir sembra muoversi la recente, bellissima sigla per il Laceno d’Oro, il Festival internazionale del cinema di Avellino, che colloca la performer Simona Mercuro al centro di un notturno urbano di singolare suggestione, ricordando la città-incubo, la città dai mille occhi dell’immaginario in nero di una fortunata tradizione letteraria e cinematografica. Un paradigma confluito nelle città sognate, danzanti, paraboliche di tanta videoarte contemporanea, dopo che le avanguardie storiche (non solo Ruttmann con la sua sinfonia della grande città, ma anche Moholy-Nagy e Cavalcanti ) ne avevano fatto il luogo privilegiato della rappresentazione, dove a noi spettatori sono riservati i ruoli del flaneur o del detective.

Nella raffinata elaborazione di Antonello Matarazzo il mito urbano si scarnifica, si semplifica, si deromantizzisa. Sfondo e figura si contaminano fino a diventare uno funzione dell’altra, scanditi nel ritmo della corsa, dell’inseguimento, dell’attesa. Addirittura della suspense. Fin dalla sua prima apparizione mentre i cani abbaiano nella notte, la protagonista è la ragazza con la valigia che corre per sfuggire a qualcuno che la insegue. La silhouette del trench chiaro che si muove nel buio è segnata da una sorta di identità plurale. Se prima ha i capelli sciolti, ora sono raccolti con una fascia e il trench ha lasciato il posto a una T-shirt a righe e a un paio di pantaloni, mentre dietro l’angolo spuntano i fari accesi di un’auto. Quando lo spazio si apre a una strada più ampia, punteggiata di luci intermittenti, indossa un elegante abito da sera nero con uno scialle bianco e una collana. Ma di lì a poco tutto cambia, ora indossa calzoni e giubbotto di pelle nera. Si toglie il passamontagna e si vedono il collare con chiodi e il piercing al naso. Apre la valigia e ne escono accartocciate le pellicole. La scritta “Laceno d’Oro. Il cinema che riflette” appare sullo sfondo della sala buia piena di spettatori.

Alle diverse identità che si inseguono tra di loro in una serie di trasformazioni possiamo anche dare un nome nella segnaletica essenziale del minuto e quaranta della sigla. Il trench è quello dell’hard-boiled, la divisa di Humphrey Bogart-Philip Marlowe, la T-shirt a righe rimanda alla Jean Seberg del godardiano Fino all’ultimo respiro, uno dei titoli emblematici della Nouvelle Vague, mentre l’elegante toilette da sera è quella della Femme Fatale. Prima del logo è la Ragazza Dark che guarda in macchina e si congeda. Altrettante soglie, momenti di passaggio, punti di riconoscimento del cortocircuito che anima il percorso della sigla. Schegge di cinema, in cui la sensibilità dell’artista può coincidere o no con la nostra di spettatori. Nessuna paura se nel gioco di rimandi non vi ritrovate nell’ambiguità del moderno impersonata da Jean Seberg. O se l’elegante fatalità della signora con lo scialle vi fa pensare alla Delphine Seyrig e ai labirinti di Marienbad più che alle Lauren Bacall, le Lizabeth Scott, le Jane Greer del noir classico. O quando si toglie il passamontagna non riconoscete lo sguardo sfrontato da hacker di Noomi Rapace, la ragazza che gioca col fuoco della saga di Millennium. “ La città è fatta così”, diceva Ben Hecht. “Chiunque vi avverte ciò che vuole. Identità, domicilio e professione non hanno più importanza, non ci si sottrae al marchio della città che portiamo in noi”. Come succede con il cinema e i suoi fantasmi che nel buio incarnano le nostre inquietudini segrete. Soprattutto quando sullo schermo “il cono danzante che perfora il nero come un raggio laser”, fa vibrare per un momento la luce di una rivelazione, di un puzzle da decifrare.

BOX

Antonello Matarazzo (Avellino, 1962), è regista e videoartista. Dal 2000 partecipa a numerosi festival nazionali e internazionali, alcuni dei quali gli hanno dedicato delle retrospettive. L’interesse antropologico è una delle componenti di Apice (2004), dedicato al borgo irpino abbandonato dopo il sisma del 1980, e di Miserere (2004), dove un gruppo di uomini e donne in carrozzella rivisita con la musica di Canio Loguercio le aree dismesse dell’Italsider di Bagnoli. Lo sguardo è al centro di La Camera Chiara (2003/2014) che interviene in modo creativo sulla raccolta di fotografie di un centro studi avellinese, ma anche di 4B movie (2007) che fa rimbalzare la visione di Beckett, Keaton, Bene e Bergman nell’occhio di Piera Degli Esposti. Un’ampia scelta dei suoi lavori più significativi – da Luna Zero (2007) a Karma Baroque (2010), da Veraznunt (2008) a Video su carta (2011) – in Video e installazioni. Antonello Matarazzo, il DVD della RaroVideo a cura di Bruno Di Marino, che è il curatore anche del DVD Latta e Cafè (2009), il film dedicato all’architetto e designer napoletano Riccardo Dalisi, pubblicato dallo stesso editore. Importante nella sua opera l’uso della musica. Nella sigla del Laceno d’Oro, il brano di Camille Saint-Saens accentua la dimensione fantasmatica del video.

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