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Il manifesto della sinistra Pd, quasi ex

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Democrack Un gruppo di esponenti della minoranza dem si riunisce e discute un documento scritto da Carlo Galli. Un confronto sulla «grande decisione» tra i più tormentati dall’idea di lasciare il partito ma anche da quella di restarc. Presenti, tra gli altri, D’Attorre, Mineo, Monaco e Folino

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 22 ottobre 2015

No, non si può parlare di scissione neanche questa volta. E non solo perché Roberto Speranza, giovane leader mancato dell’altrettanto mancato rinnovamento dell’area bersaniana, non accetta «neanche di sentirla nominare» e così il gruppo di una minoranza Pd bersanian-cuperliana in piena vocazione minoritaria e profonda crisi di identità. Non se ne può parlare perché, al momento, i numeri della prossima migrazione dal Pd verso il deserto della sinistra, data per imminente, restano incerti e comunque magri.

Se n’è discusso lunedì sera in un «apericena» in un locale vicino alla camera. Presenti molti della minoranza Pd, i più critici, i più tormentati dall’idea di lasciare il partito ma anche da quella di restarci dopo aver espresso, come stanno meditando di fare alcuni, l’ennesimo no: no alla riforma costituzionale, che sta per approdare a Montecitorio, e no alla legge di stabilità, che si voterà a dicembre. Gli invitati all’informalissimo appuntamento, convocati con un passaparola confidenziale, erano meno di una ventina, i cui nomi sarebbero coperti da un patto di discrezione: in molti sono sinceramente indecisi sul da farsi e non hanno alcuna voglia di finire anzitempo nelle liste di proscrizione renziane.

Di certo c’era Alfredo D’Attorre, che ha già scoperto le carte: detto che se la finanziaria «non cambierà segno» lascerà il Pd; Franco Monaco, l’ulivista ancora oggi vicinissimo a Romano Prodi, il deputato che dalle colonne del manifesto ha invitato la sinistra Pd a «prendere atto di differenze ideali, politiche e programmatiche non componibili in un medesimo partito» e a «separarsi senza reciproci anatemi»; Corradino Mineo, uno dei due senatori dem che hanno votato no alla riforma costituzionale (l’altro è Walter Tocci, astenuti Mario Tronti e Felice Casson); l’ex direttore di Rainews fin qui non ha risposto al richiamo di Civati ma ora starebbe meditando l’addio al partito. C’era anche Vincenzo Folino, bersanianissimo deputato della Basilicata (come D’Attorre); Stefano Fassina, che è già nel gruppo misto dal giugno scorso; e infine il politologo bolognese Carlo Galli, critico implacabile dell’era renziana.

L’aperitivo c’era, ma l’atmosfera non aveva niente di mondano. I convenuti si sono scambiati le idee su un documento scritto negli scorsi giorni proprio dal professore Galli, dal titolo ri-fondativo «Tesi per una sinistra democratica sociale repubblicana». Il testo è stato inviato a una quindicina di colleghi, fra cui Pier Luigi Bersani e Gianni Cuperlo. Sette pagine articolate in cinque capitoli. Si parte dalla necessità di «superare il togliattismo senza Togliatti» perché «il realismo senza una grande idea da preservare e da realizzare non è sinistra, ma è solo opportunismo»; si passa per la critica al blairismo, all’«ordoliberismo», e, in Italia, per il fallimento dell’idea che «non esiste un mercato, un’economia, senza una politica che la sorregga».

Ma il core business di quello che è nei fatti un manifesto della sinistra Pd quasi ex Pd si legge nei due capitoli finali. «La trasformazione leaderistica e acclamatoria della politica va di pari passo con l’indebolimento politico, culturale e organizzativo del Pd (tranne che nel dato elettorale relativo, che non a caso viene assunto come base delle riforme elettorali) e con il suo spostamento al centro», scrive Galli. «E la grande forza è il suo apparire privo di alternative, soprattutto di sinistra». Oggi è però arrivato il momento della «grande decisione»: «Se ci sia spazio per la sinistra, e in caso affermativo se tale spazio sia interno o esterno al Pd».
Esterno, pare suggerire il professore: perché dopo il primo anno di governo Renzi la «sinistra degli emendamenti» che si accontenta delle «limature» ha dimostrato la sua inefficacia e via via la sua irrilevanza. E invece questa nuova sinistra «deve guardarsi dall’estremismo, e tuttavia essere decisamente di opposizione, in consapevole alternativa alla strategia del Pd di oggi».

Ormai il «manifesto» circola nelle mail di molti parlamentari della minoranza che si chiedono che fare. Se ne riparlerà dopo la riunione dei deputati dem sulla legge di stabilità e definitivamente dopo il voto sulla riforma costituzionale.
Ma un nuovo gruppo alla camera ormai è certo. Sel si sta già preparando allo scioglimento del suo in un nuovo contenitore più grande che spalancherà le braccia ai dem in fuga da Matteo Renzi. «Ci saremo», spiega uno di loro, «la nostra critica alla finanziaria di Renzi diventerà il manifesto di uno sbocco politico largo e accogliente di una sinistra popolare, aperta e non minoritaria. Sarà, perché no, un ritorno alle abbandonate radici uliviste».
Una parola d’ordine, quella ulivista, praticamente bandita dal tavolo della ’cosa rossa’ che si è riunito in questi ultimi giorni con l’ambizione di lanciare un nuovo soggetto di sinistra anti-Renzi. Un altro, però.

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