Il manifesto dei robot per il reddito di base
Una rivoluzione «Vogliamo lavorare per gli umani. La sfida della Quarta rivoluzione industriale è che tutti ricevano un guadagno di base sicuro». Le potenzialità dell’automazione in un appello sorprendente. Ieri la manifestazione dei robot per il reddito di base a Zurigo
Una rivoluzione «Vogliamo lavorare per gli umani. La sfida della Quarta rivoluzione industriale è che tutti ricevano un guadagno di base sicuro». Le potenzialità dell’automazione in un appello sorprendente. Ieri la manifestazione dei robot per il reddito di base a Zurigo
Primo maggio con i robot che chiedono un reddito di base per gli umani. È accaduto a Zurigo dove ieri centinaia di robot hanno manifestato nella capitale finanziaria svizzera accompagnati da centinaia di sostenitori. Insieme hanno chiesto l’introduzione di un reddito di base incondizionato: l’erogazione di un beneficio economico senza obbligo di accettare un lavoro. La trovata situazionista fa parte della campagna referendaria in vista del voto del prossimo 5 giugno. La Svizzera, infatti, sarà il primo paese al mondo a votare un referendum per introdurre la forma più universale del reddito: non minimo, nè di cittadinanza, ma di base.
Tutti coloro che risiedono nel paese elvetico avranno diritto a ricevere il sussidio, indipendentemente dalla nazionalità. La storia dei robot che prendono parola è iniziata al forum di Davos di quest’anno. «Mentre noi faremo i lavori più faticosi, noiosi e ripetitivi, gli umani saranno liberi di creare, socializzare, inventare nuove attività utili per la società – hanno scrittogli attivisti della campagna in un «manifesto dei robot» diventato celebre – Molte persone hanno bisogno di un reddito. La nostra missione è fornire alle persone beni e servizi. Il compito della politica è fornire alle persone un reddito di base incondizionato». È un modo singolare per spiazzare il dibattito in corso sul ruolo della cibernetica, automazione, piattaforme online, specializzazione flessibile nel ridurre – o sostituire completamente – la parte del lavoro umano nella creazione delle cose, nella distribuzione e nel marketing o nella comunicazione.
«Abbiamo una cattiva coscienza. La gente ha paura di noi e ha paura del futuro – si legge nell’appello-manifesto – È preoccupata perché perderà il posto di lavoro e quindi lo scopo della sua esistenza. In Europa vediamo che soprattutto i giovani non trovano lavoro, in Italia è il 40%. Prospettiva: Nessun futuro!».
Una profezia che oggi fa tremare le radici dell’Io, oltre a diffondere un clima depressivo che tende alla paura. È saltato il legame tra lavoro e salario: essere impiegati oggi non necessariamente comporta una remunerazione, né una pensione. Se, come sostiene il presidente dell’Inps Tito Boeri lavoreremo fino a 75 anni per prendere una pensione inferiore a quella minima attuale, questo significa che è venuta meno l’identità stessa di ciò che nel Novecento è stato chiamato «lavoro». Due sono i fattori che lo hanno cambiato profondamente: l’aumento del tasso di sostituzione da parte delle macchine e del web e il lavoro digitale in cui emerge qualcosa di rimosso: il lavoro servile. Il primo fattore è stato spiegato da Erik Brynjolfsson e Andrew Mcafee ne La nuova rivoluzione delle macchine.
Nel 2010 Istagram contava su un nucleo di 15 lavoratori che ha prodotto una app usata da 130 milioni di persone per condividere 16 miliardi di fotografie. La Kodak, fallita nel 2012, pilastro dell’industria fotografica, impiegava fino a 145 mila persone. In pratica, oggi 15 persone possono fare il lavoro di 145 mila. L’esempio può essere fuorviante: Istagram è una piattaforma di condivisione, la Kodak era un’azienda che fabbricava pellicole e apparecchi fotografici.
Ciò che scompare non è il lavoro – hanno scritto Stanley Aronowitz e William Di Fazio in The Jobless Future, un libro che ha fatto epoca quando uscì nel 1994 – ma i posti di lavoro, assorbiti e trasformati dal lavoro digitale. È scomparsa l’idea che il lavoro a tempo indeterminato avrebbe portato alla pensione, all’assicurazione sanità. Sfumato è il concetto di «carriera» da cui il lavoratore poteva aspettarsi un salario crescente e maggiori responsabilità. Oggi esistono milioni di disoccupati, scoraggiati, sottoccupati, lavoratori in nero e in tutte le tonalità del grigio. Nella condizione da quinto stato si ritrovano oggi sia la ex classe media salariato che il ceto medio delle professioni, senza contare quella peculiare esperienza dei lavoratori poveri raccontati da Chiara Saraceno in Il lavoro non basta. Il meglio che oggi ci si può augurare è la garanzia di un impiego in cambio di un reddito limitato.
In Italia con i voucher si è affermata nel 2016 la terza generazione del precariato: negli anni Novanta li chiamavano «flessibili», negli anni zero-zero a termine o interinali, oggi i lavoratori sono scontrini che si comprano dal tabaccaio. I lavoratori vivono in un turn-over vorticoso di contratti e posizioni lavorative: un voucher può portare a un contratto a termine, a un apprendistato e infine alla partita Iva. E poi alla disoccupazione. Punto e a capo. Il giro della ruota ricomincia.
Guy Standing, in Diventare cittadini, ha definito questa dimensione del lavoro anonimo, ed alto tasso di intercambiabilità, «crowd-work»: il «lavoro folla». Si tratta del lavoro a chiamata di nuova generazione: disponibilità in rete a tutte le ore, tutti i giorni, per compensi minimi. Ciò che si vende è la propria disponibilità, il proprio tempo per essere investiti di un nuovo incarico. Oltre al cellulare, simbolo vent’anni fa del lavoro a chiamata di prima generazione, oggi c’è il profilo su facebook o twitter. È cambiato anche il committente: prima era l’agenzia interinale a «chiamare». Oggi l’intermediario può essere anche una piattaforma online: Uber, ad esempio.
Nel lavoro-folla il lavoratore è indistinto, merce pura. Potenzialmente, tutti potrebbero svolgerlo. Anche una macchina. Questa mescolanza tra lavoro servile e automazione integrale è visibile nella logistica: turni da 80 ore a settimana, controllo ossessivo, velocizzazione della produttività attraverso le macchine, come raccontato in un’inchiesta sul New York Times il 15 agosto 2015. Che il reddito di base sia l’esito dell’automazione del lavoro non è affatto scontato.
Quando i posti di lavoro saranno stati sostituiti integralmente dai robot, il lavoro resterà un ricatto quotidiano. È incoraggiante sapere i robot saranno ancora dalla parte dell’autodeterminazione del lavoro vivo e dalla liberazione dal lavoro servile. Agli uomini spetterà crederci, uno di questi giorni.
*** 30 aprile, la manifestazione dei robot per il reddito di base a Zurigo
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