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Il male oscuro tra madre e figlia

Il male oscuro tra madre e figliascena da "La Fuga"

In sala La regista Sandra Vannucchi parla del suo film "La fuga"

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 9 marzo 2019

Tornare da scuola e trovarla sempre abbarbicata al letto, come l’ultimo appiglio in un naufragio, il viso stremato, la stanza in penombra, mentre flebile le chiede di chiudere la porta, di lasciarla in pace. Agli occhi di Silvia, dieci anni – in un mondo che costantemente le domanda di crescere in fretta – ogni rientro a casa è un piombare nella nube plumbea che avvolge sua madre, nella tensione esasperata con cui reagisce suo padre, nei silenzi a tavola col fratellino.

Una bolla di deprivazione che un giorno il suo sguardo franco e intristito prova a forare con una fuga in treno verso Roma, dove il padre ha tante volte promesso di portarla, senza mai esaudire il suo desiderio. Qui la sua piccola odissea di fuggiasca si imbatte in Emina, coetanea Rom (da cui sarà ospitata), anche lei poco visibile per la propria madre che, oppressa dal bisogno economico, le impone l’accattonaggio…

Un giorno di tanti anni fa anche Sandra Vannucchi, regista de La fuga (Girl in Flight), in questi giorni in sala in Italia, ha sentito la spinta a scappare da un vissuto come quello di Silvia, e l’ha fatto, solo che la sua avventura si è conclusa troppo presto. Così, nel tempo, dopo gli studi di cinema a New York, un amore per i film di Francesca Archibugi e Paolo Virzì, ha dato alla luce quella fuga sognata: avrebbe dovuto essere un corto, ma poi è andato oltre e avrebbe avuto la forza per espandersi ancora di più poeticamente. A noi, un opera prima onesta e diretta che, grazie all’apporto di Lisa Ruth Andreozzi (Silvia) e Donatella Finocchiaro ( Giulia) e alla giovane interprete Rom e alla madre, si inoltra con coraggio tra gli anfratti micidiali della malattia, nelle pieghe dolci e acuminate della relazione madre figlia, tra il diritto delle ragazzine di vivere la propria età e la capacità delle madri di trasformare la loro solitudine in autonomia e accudimento.

Cominciamo dalla scelta della ragazzina che interpreta Silvia. Doveva essere piccola, ma apparire più grande, su un filo tra l’infanzia e la vita adulta.

Abbiamo visto circa 400 ragazzine prima di imbatterci in lei. Cercavo una che a dieci anni avesse dentro la determinazione di prendere un treno da sola e che al tempo stesso con una sua vulnerabilità. Rispetto alle coetanee, che hanno ancora i pupazzi in camera, nel personaggio di Silvia c’è quasi una maturazione precoce, il desiderio di prendere la vita nelle sue mani.

Un altro nucleo cruciale del film è racchiuso nel personaggio della madre, Giulia: il buio della depressione è narrato fuori dai luoghi comuni. Anche per ciò che concerne il mistero insito nella malattia.

Per me era fondamentale aprire una porta su quello che è ancora un tabù. Rispetto alla dimensione di mistero, c’è un momento in cui Silvia trova il coraggio di chiedere alla madre perché sta così male. Ma ottiene soltanto un “non lo so”. Parliamo di “male oscuro” perché è arduo individuarne la causa anche con l’aiuto di specialisti. Questo spesso rende difficile immedesimarsi, come accade al padre di Silvia (Filippo Nigro, ndr). Se non l’hai provato, non riesci a comprendere come qualcuno possa stare a letto tutto il giorno senza riuscire nemmeno ad alzarsi.

E il lavoro con Donatella Finocchiaro? Alla Casa del Cinema ha parlato di un percorso terapeutico attraversato insieme…

Abbiamo fatto lunghe chiacchierate sul vissuto precedente di Giulia, extra sceneggiatura. Essendo un film low budget, le prove le abbiamo fatte sul set, in una dimensione raccolta. Lei è stata fantastica. Non è da tutte scendere in questi meandri e al tempo stesso rendere le sfumature di uno stato in cui sembra non accada niente. Come nella scena in cui Giulia ha la forza di alzarsi e preparare la colazione ai figli che credono stia meglio. Ma chi la guarda a fondo mentre beve la sua tazzina di caffè, capisce che ha ancora l’inferno dentro e che fa uno sforzo immane.

Pur non minimizzando affatto la malattia, la dinamica narrativa del film fa sì che la fuga di Silvia generi uno scatto in Giulia, tanto da spingerla fino a Roma.

Non possiamo dire che scappare di casa sia qualcosa di positivo, eppure il gesto di Silvia fa da catalizzatore nella famiglia e soprattutto funziona quasi da antidepressivo in Giulia. Certo, dal momento che non è un film hollywoodiano, non tutto si risolve. In questo aprirsi a Roma e al mondo, Silvia incontra Emina. Tra loro c’è una specularità, perché anche la ragazzina Rom vive una sorta di abbandono da parte della madre che le impone di trascurare la scuola per andare a chiedere l’elemosina. Era qualcosa che faceva parte del reale vissuto di Emina?

Ho lavorato per anni nei campi Rom e volevo narrare un incontro di culture fuori dalla paura e dai pregiudizi. La sceneggiatura l’ho scritta su episodi davvero accaduti ad altre famiglie. Tanti, poiché nessuno dà loro da lavorare, mandano i minori a elemosinare, perché poi, se vengono fermati, non succede niente. Non è il caso di Emina, i suoi la mandano a scuola; invece fanno parte del suo vissuto i conflitti con la madre. Sì, le due ragazze risuonano ed è anche per questo che si piacciono e si aiutano. E nella realtà sono diventate amiche.

Cosa accadde davvero quando prendesti la decisione di scappare di casa?

Come nel film, sul treno avevo incontrato una signora cui raccontai la storia che i miei, molto moderni, mi lasciavano viaggiare da sola. Così fu proprio una figura tremenda quando all’arrivo in stazione, trovai ad attendermi i miei zii romani, avvertiti da mio padre che aveva capito. Ecco il perché dell’entusiasmo danzante che, pur tra le tante insidie violente della città, si respira nelle sequenze di Silvia in giro per le strade di Roma…

 

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