Visioni

«Il male non esiste», l’armonia fragile dei luoghi e delle vite

«Il male non esiste», l’armonia fragile dei luoghi e delle viteUna scena da Il male non esiste

Cinema Una bimba e suo padre, il progetto di un glamping, i riti e le resistenze di una comunità. In sala il film di Hamaguchi Ryusuke, Leone d’argento al Festival di Venezia

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 9 dicembre 2023

Parlando di Il male non esiste – uno dei titoli in sala questi giorni da non perdere – dopo la presentazione alla Mostra di Venezia, Hamaguchi Ryusuke aveva detto: «Sembra che alcuni spettatori sono usciti un po’ confusi dalla proiezione del mio film, con molte domande rimaste senza risposta. Trovo che sia positivo, la confusione è ciò che volevo perché io se il male esiste o meno non lo so».

Cosa racconta Il male non esiste, col quale il regista giapponese, dopo il successo di Drive My Car, è tornato a sorprendere – e in questo caso anche a sconcertare – i pubblici internazionali? – il film è stato presentato e premiato un po’ intutti il mondo. Una storia di brusche virate e di conflitti contemporanei, di improvvisi sussulti metafisici, di ecosistemi fragili e meravigliosi. Anche qui, come in Drive My Car, c’è una comunità nella quale cerca di penetrare un elemento esterno, che è lontana e imperscrutabile. Ma se nel film precedente il regista di teatro che ne è protagonista trova comunque una sua armonia, o almeno un suo spazio forse proprio grazie alla parole messa in scena, stavolta l’estraneità si fa minaccia, diventa catastrofe forse perché lo scontro – non è solo fra tipi umani ma tra l’uomo e la sua idea di natura.

Le prime sequenze ci portano a Mizubiki, un villaggio di semplice bellezza con pochi abitanti fuori da Tokyo; ci sono i boschi, le montagne, l’acqua è pura e il sapore degli udon cambia. Lo afferma con convinzione una delle abitanti del posto che ha un piccolo ristorante insieme al compagno, e dalla capitale ha scelto di vivere lì. Nel gruppo c’è un padre con la sua bambina, Hana, di loro non sappiamo molto, neppure se sono stati sempre lì o se come altri sono arrivati da qualche parte. L’uomo si definisce il «tuttofare» del villaggio, la piccola sfugge sempre ai suoi ritardi all’uscita di scuola avventurandosi per il bosco, quando si ritrovano sul cammino scoprono insieme i nomi delle piante e cercano con lo sguardo di cogliere l’apparizione di un cervo. Nel racconto di questo rito quotidiano c’è una intensità quasi fisica, la texture densa delle immagini sembra restituire l’odore pulito dell’aria e il freddo del cielo terso mentre il laghetto si sta sciogliendo.

POI ALL’IMPROVVISO tutto cambia: gli abitanti del villaggio vengono a sapere del progetto di un glamping, un campeggio di lusso, finanziato a una società di Tokyo coi fondi post-pandemia. Le persone che lo presentano sembrano ignorare del tutto regole, abitudini del luogo, accrescendo preoccupazione e diffidenza in tutti, che nascono soprattutto dal bisogno di difendere quel patrimonio naturale dalla superficialità di investimenti e profitti che non ne contemplano alcun rispetto.
Nel secondo movimento del film che è quello della conquista, i colori dei luoghi mutano, si fanno cupi quasi a riflettere le preoccupazioni dei residenti. Ognuno ha le sue ragioni, ma la natura non è come si immagina in astratto, e chi lavora come loro usando l’acqua della fonte e la legna con cui scaldarsi ne conosce la sostanza «reale».
Per convincerli i due intermediari della società, che sono delusi dal proprio lavoro, provano a coinvolgere il padre di Hana, poi uno di loro scopre che vorrebbe addirittura abitare lì. Finché non accade qualcosa di terribile, la bambina scompare.

All’inizio Il male non esiste era stato pensato come un cortometraggio di sole immagini per accompagnare la partitura musicale della compositrice Eiko Ishibashi, con la quale Hamaguschi aveva collaborato già per Drive My Car, poi il corto si è ampliato ed è diventato questo film. E la sua genesi partecipa alle molte piste disseminate nella narrazione, alcune più evidenti e altre sotterranee, e a un andamento che non è mai lineare, ma si abbandona a scarti improvvisi, vuoti e pieni, cambiando spesso il suo passo. La regia cerca costantemente una dimensione di maggiore segretezza rispetto a quanto afferma all’inizio, cioè l’attacco alla natura e la mancanza totale di attenzione nei confronti della vita che racchiude, di quegli equilibri che sono fondamentali per l’umano. Insieme a un sentimento di responsabilità di cui dovremmo essere tutti e tutte consapevoli.

UN FILM sulla distruzione della Terra dunque? Si ma appunto non solo. Prima ancora di questo c’è un’armonia che si rompe, che spezza la sinfonia visiva e sonora, lasciando passare dissonanze dolorose, la violenza dei rapporti umani, in modo enigmatico e sorprendente, che si affida all’immagine e al suo essere tempo e spazio. Un film di fantasmi, in un certo modo, nel quale il tempo si contrae in un imprevedibile presente con un passato non detto. Ma è questa affermazione di un cinema che per esistere non ha bisogno di involucri preziosi e virtuosismi a renderlo potente e politico. I temi del presente, e una intimità universale, sfuggono dalla formattazione, si affidano alle emozioni dei momenti, ai passaggi impercettibili di un sentimento che è una condizione universale. E lasciano a chi guarda lo spazio per interrogarsi, e azzardare una personale visione del racconto e del mondo.

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