Il magnetismo del passato
Scaffale «A come Archeologia. 10 grandi scoperte per ricostruire la storia» di Andrea Augenti, per Carocci
Scaffale «A come Archeologia. 10 grandi scoperte per ricostruire la storia» di Andrea Augenti, per Carocci
Sulla scia di una trasmissione radiofonica dedicata all’archeologia andata in onda su Rai Radio 3 nell’estate del 2017 (ora tornata in trasmissione fino al 12 agosto, Dalla Terra alla Storia), nasce un libro che si prefigge di raccontare al grande pubblico una disciplina da sempre attrattiva. «Tuttavia il fascino è un territorio pericoloso – scrive Andrea Augenti in A come Archeologia. 10 grandi scoperte per ricostruire la storia (Carocci editore, pp. 181, euro 14) – perché è legato alle emozioni». Ciò che muove Augenti è dunque il desiderio di «raccontare bene» l’archeologia, affinché il lettore possa raggiungere la consapevolezza di un lavoro impegnativo da svolgersi in biblioteca, in laboratorio e sul terreno. Anche un exploit come il rinvenimento dell’ominide Lucy, in Etiopia, è il risultato di una lunga preparazione e del progresso delle metodologie scientifiche. Insomma, secondo l’autore – docente di Archeologia medievale presso l’Università di Bologna – il segreto del successo si nasconde dietro la ricerca, purché sia condivisa con la comunità dei non specialisti.
DA QUI LA CRITICA a quella parte di accademia che si ostina a tenere chiuse le porte della conoscenza. Lo sdoganamento della divulgazione seria e appassionata – già ampiamente effettuato in altre branche del sapere come la paleoantropologia – è una necessità impellente in ambito antichistico, pena il rischio di cedere il campo a ciarlatani e falsi profeti. Il volume segue un criterio temporale, dalla Preistoria al Medioevo, tocca tre continenti, Europa, Asia e Africa, e si divide in temi: le origini dell’uomo, l’archeologia funeraria e quella delle città e delle civiltà scomparse.
TRA LE DIECI SCOPERTE scelte da Augenti vi sono le celebri imprese di Howard Carter e Heinrich Schliemann, che hanno lasciato tracce indelebili nell’immaginario collettivo. Difficile trovare qualcuno che non abbia sentito parlare, almeno una volta, del faraone bambino e dello strepitoso corredo della sua tomba. E che dire della tenacia del mercante del Mecklenburg che usando Omero come unica fonte riuscì a realizzare il suo sogno d’infanzia? Eppure gli archeologi odierni somigliano poco agli avventurosi pionieri degli ultimi due secoli. Un semplice coccio, oggi, può entusiasmare più della maschera d’oro di Tutankhamon perché il vero obiettivo non è riportare alla luce tesori ma ricostruire il passato.
PER RAFFORZARE quest’ultimo principio, l’autore analizza due scavi condotti tra gli anni ’70 e ’90 del Novecento. Il primo, diretto da Andrea Carandini nella villa rurale di Settefinestre, è noto per la sperimentazione, in Italia, del metodo stratigrafico e per aver aperto la strada allo studio della cultura materiale, testimonianza imprescindibile della vita quotidiana di un popolo. Da quel momento, l’archeologia smise di identificarsi con la storia dell’arte e dell’architettura per affermarsi come la scienza dell’uomo in tutte le sue espressioni, incluse le più umili.
LE RICERCHE nella Crypta Balbi a Roma, condotte da Daniele Manacorda, costituiscono invece l’avanguardia dell’archeologia urbana nel nostro paese. Esplorare uno spazio pluristratificato ha significato ripercorrere duemila anni di storia, dall’epoca augustea – quando nell’area del Campo Marzio venne eretto il Teatro di Balbo – fino a tempi recentissimi. La successiva musealizzazione delle vestigia marca un’ulteriore tappa verso la comprensione di un isolato al centro dell’Urbe.
L’epilogo del libro è dedicato al cimitero altomedievale di Sutton Hoo, in Inghilterra, che ha restituito la sorprendente nave funeraria di un re – probabilmente Raedwald – assieme ad altre numerosissime sepolture, tanto da riempire un’ala del British Museum di straordinari reperti.
DEBUTTATE NEL 1938, le indagini a Sutton Hoo sono riprese nel 1986 grazie all’intraprendenza di Martin Carver dell’Università di York, il cui progetto (conclusosi nel 2001) ha segnato una svolta non solo per l’utilizzo di tecniche sofisticate ma anche per il coinvolgimento delle comunità che vivono intorno al sito. Ed è all’esempio di Carver che Augenti affida la lezione più importante: democratizzare lo scavo, dalla progettazione all’esecuzione, è la nuova sfida di una disciplina che deve scrollarsi di dosso la polvere dell’elitarismo.
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