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Il lupo cattivo di Wall Street

Il lupo cattivo di Wall StreetUna scena di Wolf of Wall Street

Wolf of Wall Street La potente parabola di un broker senza scrupoli - Di Caprio - segna il ritorno di Martin Scorsese

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 23 gennaio 2014

L’ Hollywood Reporter lo ha definito l’equivalente stilistico di un mix di cocaina e Viagra e alcuni critici hanno manifestato disagio di fronte allo sfoggio iperbolico di sesso, droga e «rock ‘n roll», ma alla sua uscita, il giorno di Natale, gli americani si sono precipitati a vedere The Wolf of Wall Street. Alle undici del mattino, il nuovo film di Scorsese risultava sold out, esaurito, in tutte le sale di Manhattan fino agli spettacoli delle sette/otto di sera, e quel giorno Leonardo Di Caprio e il suo orgiastico esercito di traders senza scrupoli hanno dato del filo da torcere persino agli hobbit di Peter Jackson. Da allora The Wolf of Wall Stret ha incassato circa 90 milioni di dollari e, la settimana scorsa, si è inserito con autorevolezza inaspettata tra i film più nominati per gli Oscar.

Ironicamente, il primo a riconoscere il potere messianico di un messaggio che promette denaro illimitato e, con esso, una lista di divertisssment da far sembrare innocenti gli spring breakers di Harmony Korine, è proprio Scorsese, che filma il suo protagonista – un ragazzo della Queens blue collar diventato plurimiliardario vendendo a degli sprovveduti delle azioni che non valevano niente – meno come un Machiavelli della finanza che come un predicatore religioso, il capitalismo sfrenato la mega- Chiesa più irresistibile di tutte.

Se, come ha riconosciuto anche il regista, The Wolf of Wall Street è l’ultimo capitolo di una trilogia «del crimine» di cui fanno parte anche Quei bravi ragazzi e Casino, l’altro titolo che viene in mente guardandolo è infatti il suo grandissimo film sulla seduzione della performance, Re per una notte.

Il teatro della storia, in realtà, non è Wall Street, bensì Long Island – lo stesso set di Gatsby (un ideale doppio programma con Wolf – non solo per Di Caprio: si tratta di un’equivalente parabola «americana») e delle gesta dei piccoli truffatori di American Hustle. Scritto da Terence Winter (uno degli sceneggiatori di The Sopranos e Boardwalk Empire), il film è adattato dall’autobiografia di Jordan Belfort. Quanto lo incontriamo, nell’incarnazione ipervitaminica di Leonardo Di Caprio (al quinto film con il regista), si presenta in prima persona con un lungo elenco di vizi – lusso, droga e sesso in quantità abominevoli.

Il tono è quello di una farsa dell’eccesso: Jordan che ci mostra le sue case e lo yacht, pacchianissimi, Jordan alla guida di un elicottero che è troppo fuso per pilotare, Jordan che tira coca dall’ano di una prostituta…. No, non è stato sempre così, ci spiega, e andando indietro nel tempo, lo incontriamo poco più che ventenne quando ancora sognava di scalare le vette del potere nella downtown di Manhattan. Alla banca d’investimento L.F. Rothschild, dove lo hanno assunto ai telefoni, la prima lezione di vita gli arriva durante un pranzo a base di coca e Absolut Martini, da un broker stagionato (Matthew McConaughey, magnifico), che gli dispensa consigli fondamentali come «non pensare mai al bene del cliente, solo al tuo», «per dare il meglio di te in questo lavoro devi masturbarti almeno 2 volte al giorno» e «quando un cliente vuole vendere per riscattare il suo profitto devi assolutamente impedirglielo, e obbligarlo e reinvestire: la transazione non deve mai tradursi in denaro per lui, se no diventa realtà. Tu intanto ti metti la percentuale in tasca».

Quando il lunedì nero (il 19 ottobre 1987) manda a picco il suo datore di lavoro, Belfort si assicura una scrivania in un basso fabbricato della suburbia, dove un gruppo di sfigati (diretti da Spike Jonze), spacciano a dei poveretti delle penny stocks, azioni troppo insignificanti per essere quotate in borsa. Quando si tratta di vendere fuffa, Belfort è provvisto di doti, e ambizioni, superiori; in breve, insieme al suo numero due Donnie Azoff (Jonah Hill), e a un gruppo di amici d’infanzia, si mette in proprio. Questa è l’America, il paese delle opportunità, recita Belfort come un guru ai suoi adepti… Dietro all’aura blu chip del nome che sceglie per la sua compagnia, Stratton Oakmont, sono delle pratiche finanziarie clamorosamente illegali, che presto attirano l’attenzione dell’Fbi, e delle pulsioni da Animal House – Belfort e i suoi come una fraternity infernale. Durante una delle orge party che si tengono in ufficio, una broker accetta di farsi radere pubblicamente il cranio in cambio di un copioso assegno – che userà per pagarsi le tette al silicone. È una delle scene più crudeli del film. Il cinema di Scorsese è quasi sempre stato un cinema sugli uomini e in questo suo lavoro, più sessualmente osè di tutti gli altri, l’equazione tra il funzionamento della macchina della finanza e quello del pene è matematica.

Il crescendo iperbolico di The Wolf of Wall Street è simile a quello di Quei bravi ragazzi, una discesa agli inferi progressivamente più grottesca, allucinata, ridicola. La macchina di Scorsese che quasi compete con l’energia fisica inarrestabile di Belfort/Di Caprio. Concedendosi persino una lunghissima, buffissima scena, tra Jerry Lewis e un cartoon della Warner, in cui Jordan, dopo essersi fatto troppe pillole di Quaalude, non riesce a muoversi ed è costretto a strisciare fino e dentro alla sua Lamborghini. Hugo, un film sulla meraviglia e sullo sguardo, ci era sembrato un film profondamente autobiografico per Scorsese. Con Wolf il regista torna a delle ossessioni personali più primarie. Si sente, nel cut di tre ore che arriva in sala, l’ambizione di trascendere i limiti del lungometraggio (Winter porta al progetto un respiro «seriale»). Non è un film chiuso, risolto come Quei bravi ragazzi e Casino, ma è il film più fisico, sentito, creativo di Scorsese da molti anni a questa parte e, aldilà dell’adrelina pura, esilarante, della mise en scene, ha dei momenti altissimi. Infatti non si può smettere di guardarlo. Come gli (avidi) allocchi che abboccano all’amo di «padre» Belfort, siamo (nell’ultima inquadratura) tutti assuefatti.

 

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