Editoriale

Il lucido, organizzato fallimento delle larghe intese

Governo Un gruppo dirigente diviso, un partito d’opinione incapace di rappresentare e organizzare le istanze popolari. Il rifiuto di un governo di alternativa e l’alleanza con il Pdl per mascherare la mancanza di una visione che indichi l’uscita dalla crisi e dall’austerità

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 1 ottobre 2013

Non dirò certo che la caduta del governo Letta era prevedibile. Profezia troppo facile per chi l’ha avversato prima ancora che nascesse. Quel che è da capire è altro e più importante per l’avvenire. Non è possibile infatti che politici di lunga e consumata esperienza, leader accorti, uomini saggi si siano infilati per ingenuità in un vicolo che sin dai primi passi si rivelava impercorribile.
Non era noto, il 27 aprile, allorché si è formato il governo delle “larghe intese” (quanto è innovativo il linguaggio politico in un paese in cui la politica non cambia nulla) che di lì a poco la Cassazione avrebbe con ogni probabilità inflitto una condanna definitiva a Berlusconi? E che quindi Letta avrebbe governato con uomini a servizio di un criminale?
Certo, per decoro istituzionale si poteva chiedere ai ministri del Pdl di prendere le distanze dal loro Capo e di rispettare con atto formale la sentenza della magistratura. Non avevano giurato costoro, all’atto di formazione del governo, fedeltà alla Costituzione? E quale fedeltà c’è nel rifiutare, come essi continuano a fare, la sentenza definitiva di un potere costituzionale dello Stato? Ma questo passo non è stato compiuto. Con danni incalcolabili all’onore della Repubblica, all’etica civile del nostro paese. Con l’instaurazione di prassi imbarazzanti e al limite della legalità: quando Alfano si recava dal Capo dello Stato entrava nelle stanze del Quirinale come ministro o come messo servente di un pregiudicato? E quanto controproducente è stato imporre un governo che tradiva il voto degli elettori, che vedeva alleato quanto resta di una grande tradizione politica con il partito-azienda di un uomo che milioni di italiani considerano la più grave sciagura degli ultimi 20 anni?
Quanto nuovo discredito nei confronti del ceto politico portava agli occhi dell’opinione pubblica questo accordo incestuoso tra due partiti tradizionalmente avversi?
E non sapevano i fautori delle “larghe intese” che la crisi italiana è anche morale, di sfiducia dei cittadini nei confronti delle capacità e dell’onestà dei gruppi dirigenti e in primo luogo dei partiti politici? Davvero si poteva pensare che l’accordo di governo fra due screditate oligarchie avrebbe pacificato gli italiani? Come si può pensare di unire i cittadini, galvanizzare il loro spirito di cooperazione per far riprendere slancio e fiducia a tutto il paese, quando esso resta lacerato da disuguaglianze e ingiustizie crescenti, disparità oltraggiose di fortune private, a cui non solo non si mette mano, ma che vengono confermate con atti di governo?
Ma, al di là dell’etica civile, di cui il ceto politico italiano sembra aver perso memoria, sbagliate e controproducenti apparivano sin dall’inizio le strategie anticrisi del Pdl. Non era noto che quel partito avrebbe lottato allo stremo per abolire l’Imu sulla prima casa? E davvero si poteva pensare che su questo punto si sarebbe trovato un compromesso?
Una leggerezza rivelatrice, che mostra i limiti dell’approccio moderato ai fondamenti della crisi italiana. Senza un trasferimento rilevante di ricchezza, sottratta alla rendita fondiaria e finanziaria, a favore del lavoro e del mondo produttivo, la macchina industriale del paese non si rimetterà in moto.
Altro che togliere l’Imu sulla prima casa anche alle famiglie ricche, quel 10% che detiene il 50% della ricchezza nazionale! E invece si sono persi 5 mesi per far tornare i conti senza nessun risultato, anzi tornando indietro: il debito è continuato ad aumentare, il deficit ha superato il tetto fatidico del 3%, forse aumenterà l’Iva, il Pil è ancora in calo, nuovi posti di lavoro zero. Nel frattempo l’industria italiana va in pezzi o viene acquistata a prezzi di saldo dal capitale straniero. Gli ultimi dati Istat danno il fatturato industriale di luglio in calo dello 0’8% rispetto a giugno e un – 3,6 rispetto allo scorso anno. Dire che ci sarà la ripresa a fine anno, come fanno Letta e Saccomanni, è uno slogan penoso lanciato dai nostri governanti sin dal lontano 2009. Ormai è un dato immaginario del calendario, come annunciare che sul finire di dicembre arriverà il Santo Natale. Solo che almeno Natale arriva davvero.
Ma allora, come hanno fatto a sbagliare così clamorosamente i dirigenti del Pd e il loro supremo ispiratore, Giorgio Napolitano? La risposta ovvia e nota è che non c’erano alternative. Io credo al contrario – insieme a non pochi altri – che le alternative c’erano e che invece è stata perseguita la strada perdente con abilità, calcolo e determinazione. Lo spazio non consente la ricostruzione storica che il ragionamento meriterebbe.
Ma è evidente che dal 2009, con il precipitare della crisi internazionale, le fortune politiche di Berlusconi sono crollate. Qualcuno ricorda i dati dei sondaggi elettorali dell’autunno 2011? Era evidente che l’incanto tra il narratore di ciance e l’elettorato moderato italiano si era rotto. Un gruppo di potere che governava da poco meno di 20 anni presentava al paese un bilancio desolante di fallimenti pressoché in tutti gli ambiti della vita nazionale.
Apparve allora chiaro che il centro-sinistra aveva davanti a sé un potenziale di consenso senza precedenti e si candidava a succedere a un governo palesemente allo sbando. Eravamo a uno snodo storico di rilevante portata. E invece Napolitano non sciolse le camere e chiamò Monti. Poco dopo, conclusa l’esperienza Monti, si è aperta una campagna elettorale nella quale il leader del Pd, Pierluigi Bersani, chiedeva agli elettori di non farlo vincere troppo, al fine di poter condividere il governo con il moderato Monti. Mai nulla di simile si era visto in tutta la nostra storia politica. E’ stato, com’è noto, accontentato. Ma pur avendo vinto di misura il capo dello Stato non gli ha poi consentito di andare in Parlamento e verificare la fiducia. Il resto è noto.
Ebbene, qual è la spiegazione di questo lucido ma fallimentare percorso strategico? La risposta , che è seria e non moralistica, è una sola: l’onesta viltà intellettuale di gran parte dei gruppi dirigenti del Pd. Costoro, divisi al loro interno, sanno perfettamente di essere inadeguati ad affrontare una crisi di tale gravità e ampiezza come quella in cui annaspiamo. E Napolitano lo sa meglio di loro. Hanno costruito un partito d’opinione, incapace di organizzare e rappresentare le istanze popolari, e in grado di far valere una forza di massa negli attuali rapporti di classe che soffocano il paese e che condizionano la ripresa.
Essi dovrebbero entrare in conflitto con i gruppi dominanti con cui ormai dialogano come governanti, quando non sono collusi in pratiche affaristiche. Avrebbero bisogno di una capacità di manovra almeno di raggio europeo e invece vegetano nel tran tran quotidiano di una Italia sempre più provincia dell’Impero.
E’ per questo che il Pd non ha osato muoversi da solo in mare aperto. Condividere con l’avversario le responsabilità anche di un eventuale fallimento – oltre a gestire insieme gli effetti socialmente dolorosi dell’austerità – mette al riparo da sconfitte catastrofiche e consente di conservare parte del potere politico fin qui conseguito.
Naturalmente con l’auspicio di uscire dalla crisi e puntare più in là a nuove prospettive. Ma, a parte il tamponamento di problemi d’emergenza (cassa integrazione, esodati, pagamento di debiti da parte dello Stato, ecc) quale strategie era in grado di esprimere il governo delle larghe intese per affrontare la crisi? Oggi è evidente che il distillato strategico della politica economica dei governi neoliberisti è l’aggiornamento di uno schema neocoloniale.
Ogni stato deve avere i conti in ordine, il lavoro flessibile, l’amministrazione efficiente, una bassa pressione fiscale perché il capitale finanziario che gira per il mondo in cerca di affari trovi conveniente investire. E dunque muovere la crescita economica, creare lavoro. Organizziamo i vantaggi comparati, in competizione con altri paesi, perché vengano a colonizzarci. Davvero un salto di qualità, sia di visione che di compiti, per la politica del nostro tempo.
Ora l’esperimento è rovinosamente fallito. Ma da esso non bisogna limitarsi a trarre la conseguenza che Berlusconi è uno dei più torvi lestofanti mai apparsi sulla scena politica del globo. Questo, almeno noi, lo sapevamo da un pezzo. La grande e luminosa lezione è che con le tresche trasformistiche della vecchia politica, con i pannicelli caldi delle ricette neoliberiste non si va da nessuna parte.
La caduta del governo Letta segna la sconfitta di una linea moderata del centro-sinistra che non potrà non avere conseguenze sui rapporti di forza interni al Pd e su tutta la sinistra. A destra le stampelle politiche si sono rotte. Nei prossimi mesi e anni o il Pd cambia rotta, affrontando il mare aperto, aprendosi alle realtà in fermento nella società, nelle fabbriche, nei gruppi intellettuali, o trascinerà con sé il paese sempre più in basso, ai margini dell’Europa e del mondo. Certo, se nel frattempo non avremo costruito alternative.

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