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Il linguaggio è un rivolo lunare: Cesare Viviani, versi sulla natura divina

Il linguaggio è un rivolo lunare: Cesare Viviani, versi sulla natura divinaMimmo Paladino, «I dormienti»

Poeti italiani «Dimenticato sul prato», Einaudi

Pubblicato più di un anno faEdizione del 9 luglio 2023

La poesia di Cesare Viviani da alcuni anni, almeno all’altezza di Credere all’invisibile (Einaudi, 2009), ha acquisito una nudità e, al contempo, una levigatezza tali da renderlo uno dei più sorvegliati autori italiani contemporanei.

Il tono oracolare e aforistico, la sostanziale brevitas del dettato, le metamorfosi psichiche, lo sguardo a una dimensione ulteriore, l’eterna nominazione del nome di Dio: tutte opzioni, queste, che il poeta senese ha la facoltà di combinare in ogni singolo testo, dando l’impressione che dall’auscultazione lirica provenga una scuola di vita e di saggezza a cui è necessario obbedire (in questa direzione vanno i versi di Claudio Damiani, benché maggiormente distesi e colloquiali).

Dimenticato sul prato (Einaudi «Collezione di poesia», pp. 96, € 10,00), l’ultima prova di Viviani dopo Ora tocca all’imperfetto (Einaudi, 2020), si muove nelle adiacenze del concetto di «conversione», inteso non soltanto nell’accezione più propriamente religiosa, ma anche (e soprattutto) nel suo etimo motorio-stativo.

Così recita l’incipit della silloge: «La conversione / non fu sradicamento / o eccelsa mutazione, / ma quel leggero movimento / di volgersi indietro, mentre / ti allontanavi, / facendo comparire appena il profilo / del sorriso». E di rimbecco, qualche pagina più avanti: «“Quale è il mio posto” / si chiede una voce consapevole. / “È quello di aderire / alla mia vocazione”. / La vocazione si discosta dalla natura». A chi sta parlando il poeta, quali sono i destinatari dei suoi apoftegmi, delle concentratissime interrogazioni, dell’invito accorato a un’aderenza attitudinale?

I tanti rimandi all’identità della natura divina forniscono probabilmente almeno un’ipotesi di risposta.

Ad esempio: «Dice un pensiero antico: / “Se desideri avere un amico e lo vai cercando, / desideri Dio”». E inoltre: «Mi dice la mia amica Simone: / “Il pensiero di Dio è Dio”». In tali sterzate teofaniche Viviani sembra traghettare la sua (e nostra) attenzione sull’indiamento, sul conformarsi a Dio – un Dio che è sinonimo di massima virtualità, punto saliente del logos – per poter misurare la giusta distanza dagli enti. L’esistenza si fa così «visibile e chiara / nella sua vera materia»: ecco allora che «attimi di parlato, attimi di musica / o di parola / lungo il cammino incomprensibile / arrivano al punto più profondo / e oscuro, / portano luce intensa e lieve».

Approdato alle stesse conclusioni eidetiche di Caproni e Pessoa, Viviani tratta l’oggetto-linguaggio non come insufficienza de facto, tratto di discrepanza tra simbolo e significato, ma come rivolo di illuminazione lunare, paradossalmente capace di essere più forte «di ogni governo e potere, / di ogni territorio, / di ogni abisso marino, / di ogni vetta altissima e ghiacciaio, / di ogni scoperta e fede, / di ogni medicina e filosofia, / arte e scienza».

Nei ricordi («sono tutti militi ignoti») si perviene così alla res amissa, il dimenticato come dimenticarsi. Una cabbala, una mistica del linguaggio insomma, entro cui soltanto l’amore, la «lotta con l’amore», dà pieno senso ai nostri atti: «Allora si può dire / che solo la pietà / sa calibrare l’azione».

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