Il leviatano dei misteri d’Italia che grava sulla voglia di libertà
Scaffale «La Repubblica senza Stato», l’ampia indagine di Giuseppe Filippetta pubblicata da Feltrinelli. Una lettura della storia del Paese tra gli anni Cinquanta e i Settanta, mentre prendono forma l’«esilio della Costituzione e le origini della strategia della tensione»
Scaffale «La Repubblica senza Stato», l’ampia indagine di Giuseppe Filippetta pubblicata da Feltrinelli. Una lettura della storia del Paese tra gli anni Cinquanta e i Settanta, mentre prendono forma l’«esilio della Costituzione e le origini della strategia della tensione»
Tra Costituzione e fabbrica, tra emancipazione e sfruttamento si muove l’ultimo libro di Giuseppe Filippetta, La Repubblica senza Stato. L’esilio della Costituzione e le origini della strategia della tensione (Feltrinelli, pp. 400, euro 35), seguito ideale del volume dedicato all’etica e all’epica della Resistenza (L’estate che imparammo a sparare, pubblicato sempre per Feltrinelli nel 2018), in cui affianca alla stessa appassionata interpretazione degli eventi attraverso letteratura, cinema e diritto, la più sconsolata e melanconica visione della società italiana tra anni ’50 e ’70.
MENTRE IL PRIMO LAVORO, seppure inserito nel momento drammatico della guerra di Liberazione dal nazifascismo, manteneva uno sguardo se non ottimista quantomeno aperto alla realizzazione dei sogni di uomini e donne (spesso giovani) che avevano scelto da che parte stare (imparando, loro malgrado, a usare i fucili), quest’ultimo è dedicato al subitaneo tradimento dei sogni e delle aspettative di liberazione ed emancipazione. Quella rivoluzione promessa incarnata dalla Costituzione troverà presto il suo Termidoro.
Il processo costituente e gli anni di (mancata) attuazione costituzionale vengono ricostruiti seguendo una dinamica tra il dentro e il fuori, tra le aule di Montecitorio e la fabbrica, tra l’attività legislativa e la sua realizzazione, tra il pasoliniano Palazzo e il Paese reale, in una dialettica costante tra spinte in avanti della società e freni sia della classe dirigente più conservatrice sia di alcune frange economico-sociali ancora egemoniche nel Paese. Al nord è la fabbrica, nell’immediato dopoguerra, a subire i cambiamenti più radicali rispetto al modello padronale del regime e a quello individualistico-proprietario pre-fascista, non più luogo di soggezione ma di solidarietà e di potere operaio che si esprime nei consigli di gestione così come fuori dai cancelli con scioperi, lotte bracciantili e mezzadrili, mentre al Sud si assiste, già dal 1943, alla richiesta di una redistribuzione egualitaria dei prodotti, a pratiche di democrazia diretta, alle repubbliche contadine, all’occupazione delle terre e alle rivendicazioni dei braccianti contro secoli di sfruttamento.
TRAME MISTERIOSE degne di un romanzo di Leonardo Sciascia, di cui il libro ripercorre gli stilemi assumendone tutta l’inquietudine morale, attraversano la storia d’Italia dal dopoguerra fino alla strategia della tensione, con una Sicilia metafora dell’Italia intera, schiacciata da un passato che non vuole passare e da uno Stato, nella migliore delle ipotesi assente se non partecipe di depistaggi, che, pur di mantenere lo status quo e di arginare il comunismo, ricorre a ogni mezzo. Una sorta di gattopardismo all’altezza dei cambiamenti epocali non più di un Risorgimento senza rivoluzione ma di una rivoluzione (quella della Resistenza) che non «deve» mantenere le sue promesse. Dopo il 18 aprile 1948 infatti si va affermando uno «Stato forte centrista» che, smentendo le promesse dei costituenti, si discosta progressivamente dalla Repubblica, mentre la fabbrica torna a essere il luogo dell’assolutismo padronale.
L’OPERA VIVA DEI PROLETARI – fatta di presse, frese, torni, ritmi, macchine, sirene, ciminiere, cancelli, fatica – si contrappone all’opera morta dei padroni, fatta di profitti, rendite, repressione e morti, che si dipanano dagli anni ’50 per tutto il decennio successivo. Ma sarà negli anni ’70 che riemergerà nella sua forma più mostruosa (nel senso hobbesiano di artificiale) lo Stato apparato: la politica di repressione nei confronti delle rivendicazioni sindacali e di creazione di spazi di autonomia continuerà con l’ausilio di un vecchio arnese fascista (ma che pone le sue radici nell’Ottocento) e rinverdito nell’Autunno caldo: i servizi segreti, quel Leviatano nascosto e dormiente che assume ora le forme dell’Hydra onnipresente e tentacolare, al servizio dello Stato e dei grandi gruppi industriali.
La Repubblica senza Stato contribuisce a dimostrare come gli apparati ideologici dello Stato (per dirla con Louis Althusser) abbiano agito (e tramato) dalla ricostruzione fino agli anni di piombo per frenare lo sviluppo dei valori repubblicani basati sul principio «personalista» elaborato nell’Assemblea costituente (con il fondamentale contributo di Aldo Moro), con i suoi addentellati della pari dignità sociale, dell’eguaglianza e della solidarietà, e con il suo corollario dell’anteriorità dei diritti del singolo allo Stato. Quest’ultimo quale strumento per la realizzazione dei principi costituzionali e non, come è puntualmente avvenuto in ogni momento di svolta della recente storia italiana, come suo freno. «Lo Stato italiano – scrive laconicamente Filippetta – da servitore della Costituzione repubblicana si è fatto ben presto golem violento e torbido spettro».
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