Il concetto di progresso non gode di ottima stampa. La visione di uno sviluppo storico rivolto a un costante, per quanto graduale miglioramento delle condizioni di vita di uomini e donne nel pianeta è stata più volte stigmatizzata. L’autore che meglio ha compreso l’impossibilità di descrivere la vita la storia in questo modo, facendo leva non solo sulle dinamiche sociali, ma in base anche del ruolo svolto dalla tecnologia è stato Walter Benjamin. Le sue tesi sulla filosofia della storia continuano ad essere una miniera di spunti e sollecitazioni per chi voglia misurarsi, appunto, con la crisi dell’idea di progresso. Ci sono tuttavia alcuni studiosi che riabilitano una visione lineare, progressiva del tempo storico, facendo leva sul ruolo ovviamente progressivo delle tecnologie, attingendo a piene mani nella teoria dell’evoluzione di Charles Darwin, incuranti dell’invito di un grande studioso come Stephen Jay Gould a non cadere in una asfittico determinismo. Fa parte di questa schiera di visionari che con ottimismo guardano al presente come un esempio tangibile di progresso sociale, economico e politico Steven Johnson, storico della scienza e divulgatore scientifico che, nel pieno della più radicale crisi economica che il capitalismo conosce dagli anni Trenta ha pubblicato il consolatorio saggio Un futuro perfetto (pp. 185, euro 19. Il libro sarà discusso oggi a Milano all’interno della rassegna Wired Nextfest, Corso Venezia 55, ore 20). Una pubblicazione tuttavia meritoria, perché le tesi espresse dall’autore sono esemplificative di una diffusa convinzione sulle virtù salvifiche della tecnologia digitale, che favorisce l’emergere di «architettura sociali» propedeutiche appunto all’avvento di un futuro perfetto al riparo da crisi.

Sono anni che Johnson sostiene l’emergere di un nuovo paradigma che ha investito non solo la ricerca scientifica, ma anche l’economia, la politica e le cosiddette scienze sociali. Nel volume La nuova scienza dei sistemi emergenti (Garzanti), tale paradigma non ha ancora un nome, ma potremmo tranquillamente nominarlo come il paradigma reticolare, dove l’insieme di conoscenze matematiche, fisiche che hanno consentito lo sviluppo di un modello organizzativo come quello che preside il funzionamento di Internet possono essere usate per interpretare non solo la prassi scientifica (la biologia e soprattutto la neurobiologia), ma anche il funzionamento dell’economia, della società. A pochi anni di distanza, Johnson afferma, in questo nuovo libro, che esiste un dualismo ormai ineludibile tra la realtà che funziona secondo le «architetture sociali» sviluppate applicando il paradigma reticolare. La loro diffusione, lenta, ma inarrestabile come è il processo evolutivo, consentirà la costruzione di un «futuro perfetto».

Il progressismo paritario

Il libro di Johnson è indicativo anche del clima culturale che si respira al di là dell’Oceano dopo le critiche che sono state rivolta alle virtù salvifiche della Rete. Internet, i social network sono stati infatti indicati come un habitat che alimenta tendenze illiberali, che favorisce la crescita di un mefitico populismo mediatico o che, l’accusa più grave, rende stupidi gli uomini e le donne perennemente connessi al Web. Johnson non replica a nessuno di questi j’accuse, preferendo illustrare l’esperienze positive che la Rete ha consentito. È inoltre attento a non cadere nelle sabbie mobili del determinismo tecnologico. Si concentra solo sulle «architetture sociali» favorite dalla rete. Il lessico è quello della cybercultura depurata da ogni attitudine critica. Johnson scrive infatti di produzione tra pari, quasi che la rete faccia scomparire ogni rapporto di potere, consentendo ai singoli una libertà di movimento e di scelta che la vita al di fuori dello schermo rendono invece incerti. Si confronta con l’ideologia libertaria, non per criticarla, ma per sostenere che il mercato può davvero funzionare solo se esiste uno stato che definisce regole di comportamento. Semmai la «produzione tra pari» permette un’autorganizzazione sociale che si concentra solo su alcuni aspetti della vita collettiva. Esalta la presenza dello Stato in alcuni settori – la scuola, la formazione, la ricerca scientifica – che se lasciati alle forze del mercato alimenterebbe una divisione in caste della società. Il passaggio più significativo è quando Johnson parla della necessità di un «progressismo tra pari», cioè di un’attitudine politica che prende il meglio sia della ideologia neoliberale che di quella «statalista».

In nome dell’economia del dono

Johnson è tuttavia un autore avvertito. Il suo «progressismo tra pari» non va confuso con una ipotetica «terza via», bensì è sintesi tra libero mercato e statalismo. Può essere anche radicale, specialmente quando difende i diritti civili e sociali minacciati dalle corporation o dalla burocrazia statale. Una radicalità tesa tuttavia alla ricerca di una soluzione pragmatica per il rispetto di quei diritti attraverso le tante forme di autorganizzazione favorite dalla Rete. Il caso più eclatante è il crowdfounding, cioè la raccolta di fondi su progetti specifici, che l’autore considera come esempio di una «economia del dono» finalmente replicabile e diffondibile grazie alla rete. Il crowdfounding può finanziare iniziative culturali o progetti imprenditoriali facendo leva non sulla filantropia delle imprese, bensì su una folla indistinta ma interessata – per altruismo o per empatia – a vedere realizzati quei progetti.

L’altro aspetto che Johnson cita sono i «voucher della democrazia», cioè forme diffuse di finanziamento dei partiti per sottrarli al potere manipolatorio delle lobby economiche. In sintesi, il «progressivo paritario» non vuole superare il capitalismo, ma ne vuole edificare uno consapevole, rispettoso cioè della libertà e della dignità dei singoli.

Le tesi di Johnson possono essere rigettate come una manifestazione di ingenuità. Ma sono invece espressione di una attitudine politica che cerca di superare lo smarrimento provocato dalla crisi e che crede di intravedere nelle dinamiche sociali presenti in Rete lo strumento per risalire la china della recessione economica, della disuguaglianze sempre più accentuate. Un’attitudine politica che retoricamente si propone come alternativa agli estremisti del mercato e agli estremisti dello stato, ma che ha sempre più le caratteristica di una ideologia delle élite economiche cresciute con la cosiddetta «rivoluzione del silicio».