Il legame di sangue tra globalizzazione armata e Jihad
Saggi Il libro di Donatella Di Cesare «Terrore e modernità». Oggi presentazione a Roma
Saggi Il libro di Donatella Di Cesare «Terrore e modernità». Oggi presentazione a Roma
Viviamo nella prima guerra globale, non in uno scontro tra religioni o tra civiltà, sostiene Donatella Di Cesare in Terrore e modernità (Einaudi, pp. 207, 12 euro. Il libro sarà presentato oggi alle 16 nell’aula VIII di Villa Mirafiori di Roma, in via Carlo Fea 2 in una tavola rotonda organizzata dal centro di filosofia italiana e continentale (Cefic). Partecipano, oltre l’autrice, Roberto Esposito, Dario Gentili, Antonio Gnoli, Marcello Musté, Elettra Stimilli e chi scrive). Papa Bergoglio ha colto una sfumatura decisiva di questa categoria politica: siamo in una terza guerra mondiale che procede a pezzi, o a capitoli, ha sostenuto il pontefice.
Questa idea di guerra ha tuttavia il limite di ragionare sulla continuità con il primo e il secondo conflitto mondiale. Il conflitto in atto non è (solo) tra Stati, ma è l’espressione di una guerra dove non ci sono vincitori e vinti, né uno spazio per la pace.
Questo è l’orizzonte della vita quotidiana nella società globale. La guerra non è più solo categoria della geopolitica, ma assorbe la totalità dell’esistenza. Ad essere cambiata è anche la categoria di «globalizzazione». Da illusoria portatrice del «libero mercato», si è fatta armata. La guerra globale si esprime anche in forme molecolari: nella moltiplicazione dei campi profughi; nelle politiche contro la libertà di circolazione dei migranti suscettibili di diventare «nemici» e oggetti di politiche securitarie adottate a fini elettorali.
IN QUESTA CORNICE Di Cesare ricostruisce le figure dei «cavalieri postmoderni dell’apocalisse»: gli stragisti del Bataclan a Parigi, o gli attentatori di Nizza e Berlino. Ispirato da una lettura errata della religione islamica, il jihadista è il fautore di «un conflitto cosmico, uno scontro metafisico che non può avere fine, se non nella vittoria ultima»: una sovranità «illimitata» di un Dio senza pietà. Nella propria, e nell’altrui morte, l’attentatore suicida contempla la possibilità di «essere ucciso, ma non sacrificato» perché solo il suo Dio lo può giudicare. Concretamente significa che il suo martirio può essere l’esempio per il sacrificio di molti altri. La «nuda vita» è trasformata in un’arma che distrugge la vita degli altri e realizza il sogno di un’«immortalità postuma».
In una delle parti più acute e drammatiche del libro, Di Cesare riflette sulle ragioni sociali che spingono i «radicalizzati», molto spesso persone molto lontane da ideali religiosi, a scelte tremende. Sulla falsariga delle ipotesi dello studioso francese Olivier Roy, i radicalizzati vedono nel jihad, e nella guerra fantomatica dell’Isis, una possibilità estrema di esprimere la loro opposizione contro il «McMondo». Attraverso la riscoperta delle radici religiose dell’Io, il born again passa dalla depressione per l’esclusione totale alla «pienezza estatica e all’esaltazione» individuale. Questo corto-circuito è il segno di una «doppia impossibilità»: quella di realizzare se stesso in un mondo che lo rifiuta e di tenere testa a un nemico che lo sovrasta e ignora.
Davanti a questa idea «postmoderna della morte», anche lo Stato è impotente: il pericolo è senza nome, può arrivare da chiunque, e così «la sua logica si inceppa, la sicurezza dilegua, il potere appare in tutta la sua impotenza». In questi ultimi episodi della guerra globale si riconosce l’attrazione tra il terrorismo jihadista e lo stato nazione. Se il primo «nega alle vittime il diritto di esistere sulla base della scelta casuale del luogo in cui si trovano», il secondo rafforza l’armatura della sovranità perduta nella globalizzazione attraverso una «vigilanza armata o insonnia poliziesca che genera incubi».
LA POLITICA LASCIA il posto alla polizia e la democrazia alla «fobocrazia»: uno stato fondato sulla paura. In questo terrore senza limiti, conclude Di Cesare, bisogna sfuggire all’attrazione fatale che lega gli opposti. Si può cominciare rinunciando «in modo definitivo e incondizionato» a quel potente veicolo della violenza che è la «sovranità», il motore che alimenta il nostro tempo.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento