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«Il lavoro», un mercato sempre più diseguale, povero e carico di tensioni

«Il lavoro», un mercato sempre più diseguale, povero e carico di tensioniLa scultura «Hammering Man» dell'artista statunitense Jonathan Borofsky

Scaffale L’opera dei sociologi Enrico Pugliese e Enzo Mingione, uscita per la prima volta nel 2002, è arrivata alla sua terza edizione, con un aggiornamento sulle grandi trasformazioni e con la firma di un altro autore, Guido Cavalca

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 14 giugno 2024

Il lavoro, l’opera dei sociologi Enrico Pugliese e Enzo Mingione, uscita per la prima volta nel 2002, è arrivata alla sua terza edizione, con un aggiornamento sulle grandi trasformazioni e con la firma di un altro sociologo, Guido Cavalca (Il lavoro, dalla rivoluzione industriale alla transizione digitale, Carocci , pp. 254, euro 24). L’obiettivo è molto alto e nello stesso tempo realistico: si cerca di capire se le varie teorie della «fine del lavoro» abbiano ancora un senso, suggerendo vie alternative a quello che si manifesta oggi come il declino della rappresentanza, con la crisi dei sindacati e la frammentazione delle classi lavoratrici, che non solo hanno perso da tempo il mitico orizzonte internazionalista, ma sono sempre più spesso messe in conflitto tra loro.
Il libro non offre risposte facili. I tre autori forniscono però suggerimenti utili per tentare di contrastare il declino, prima di tutto sul piano culturale. Il lavoro, infatti, può essere letto come un testo di sociologia, ma anche come un testo di storia sociale: con le trasformazioni della produzione si parla in fondo di storia dell’organizzazione materiale della società e, quindi, di rapporti di potere. Emerge perciò una prima possibile generalizzazione a proposito delle novità sui modelli produttivi, sul rapporto tra insiders e outsiders, sui lavori a tempo e contrattualizzati.

LA PRIMA RIFLESSIONE generale è una critica alle teorie sulla morte del lavoro che, seppure basate su analisi importanti dei fenomeni di deindustrializzazione, sono state usate come arma ideologica per affermare il primato dell’individualismo e dei poteri assoluti del mercato. Se si guarda alle singole realtà nazionali è evidente che il numero complessivo degli operai manifatturieri si sta riducendo con grande velocità. L’Italia è ormai l’esempio classico della rapidità del cambiamento. Nel censimento del 1951 il Paese era ancora prevalentemente agricolo: nel giro di un lasso di tempo molto ridotto si è passati dal primato dell’agricoltura a quello del terziario, dopo l’epoca della centralità dell’Italia industriale degli anni 60 e 70. Ma la riduzione del numero degli operai dell’industria non vuol dire fine del lavoro. Non è un discorso valido per l’Italia e non lo è per il mondo nel suo complesso, a maggior ragione se si decide di assumere una prospettiva globale. Paradossalmente, nell’era dell’avvento delle intelligenze artificiali e dei robot, il numero di chi lavora per vivere è in crescita esponenziale.
Se il numero dei lavoratori subordinati aumenta (pensiamo, per esempio, ai paesi che erano studiati come il «modello asiatico») questo significa che le analisi sul «lavoro astratto» e sulla forza della conflittualità sono ancora valide? «In tutti i paesi industrializzati – si legge nel capitolo dedicato alla «affermazione e declino del lavoro dell’era industriale» – l’occupazione sta crescendo (anche a valle dell’impatto della pandemia che ha effettivamente distrutto, in modalità selettive, milioni di posti di lavoro). Ma la nuova occupazione è sempre più eterogenea e instabile rispetto ai parametri tipici del lavoro omogeneo e duraturo di operai e impiegati che ha caratterizzato la fase dell’espansione manifatturiera».

L’ITALIA, CON LA GERMANIA, conserva una quota rilevante (20%) del lavoro nell’industria, nonostante i processi di deindustrializzazione e delocalizzazione. Ma è certo che la concentrazione operaia in grandi fabbriche si sta progressivamente assottigliando, come risulta evidente dal caso dello stabilimento storico di Mirafiori. L’altra certezza è che il lavoro aumenta nel terziario e nel campo dei lavori domestici, a cui il libro dedica una attenzione speciale, anche per quanto riguarda l’impiego femminile nei paesi asiatici.
Ai processi profondi si sovrappone una legislazione che (anche per responsabilità dei partiti della sinistra: il Jobs Act di Renzi è stato l’opposto di quello di Obama) si basa su un dogma: alleggerire le tutele come unica via per aumentare l’occupazione e quindi la crescita.

IL PRODOTTO di tutti questi elementi (trasformazioni della produzione, revisionismi culturali e scelte legislative) è stato dunque un mercato del lavoro sempre più diseguale, povero e carico di tensioni. E così, mentre i salari continuano a scendere, viene ormai accettata per buona la distanza tra il reddito di un manager e quello degli operai, una differenza che da quel rapporto «uno a dieci» dell’Italia industriale, si è moltiplicata per migliaia. Un libro, dunque, che cerca di andare oltre le apparenze e le statistiche addomesticate e che forse è utile anche per decifrare fenomeni inediti come le «grandi dimissioni».

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