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Il lavoro, l’ultima resistenza al partito unico della nazione

Il lavoro, l’ultima resistenza al partito unico della nazione/var/www/ilmanifesto/data/wordpress/wp content/uploads/2014/11/12/13ins2 mercadini – Gabriella Mercadini

Da Gramsci a Renzi Inedita perfetta simbiosi col padronato. Sulle macerie della rappresentanza, affiora il metapartito che assorbe tutte le tendenze. Il trasformismo diventa una pratica normale, i deputati subiscono il richiamo della classe sociale che dirige le operazioni fondamentali

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 13 novembre 2014

Con le prove generali di partito della nazione, si marcia spediti verso il partito unico. Nel senso gramsciano del termine ovviamente, e cioè conservando intatti i consueti riti delle prove elettorali. Per offrire una risposta organica alla crisi, si legge nei Quaderni, «il passaggio delle truppe di molti partiti sotto la bandiera di un partito unico che meglio rappresenta e riassume i bisogni dell’intera classe è un fenomeno organico e normale». E poiché a scuotere l’Italia è una di quelle crisi che per Gramsci «talvolta si prolunga per decine di anni», un tentativo estremo di darle una direzione nel segno della stabilizzazione moderata postula il ricorso al partito unico che raduna i vari spezzoni dei ceti politici post-ideologici.

Così si spiegano i patti del Nazareno, le aggregazioni in corso attorno al carro del vincitore con i transfughi di Sel e dei cespugli centristi, la scomparsa di ogni traccia dell’opposizione parlamentare. Emblematica è soprattutto la vicenda di Scelta civica. Nata sulla base di un esplicito disegno dei settori dell’economia, della finanza e dei media di ordinare una rivoluzione passiva per bloccare la resistibile ascesa di Bersani e Vendola, le truppe di Monti sono ora in procinto di entrare, con l’onore delle armi, nelle file del partito che hanno contribuito a distruggere.

Con il renzismo trionfante, i frammenti delle formazioni politiche, a stento sopravvissute come simulacri, sentono una profonda convergenza di intenti. È normale che, sulle macerie delle funzioni di rappresentanza sociale ormai definitivamente esplose, affiori l’immagine di un metapartito che assorbe tutte le tendenze, le metabolizza senza traumi in un indistinto calderone. Cadute le fratture sociali come fondamento delle organizzazioni politiche, il trasformismo diventa una pratica normale entro le aule parlamentari, dove operano deputati che subiscono il richiamo di una medesima classe sociale che dirige le operazioni fondamentali.

Relegato il lavoro al di fuori dei giochi politici che contano, il nuovo potere unificato è così certo della sua raggiunta egemonia che, schiacciate le resistenze interne, dibatte solo sulla opportunità di sostituire i manganelli, che si sono esercitati sui crani nudi degli operai di Terni, con i meno sanguinari idranti. La questione sociale viene così scacciata dalle istituzioni e ricondotta a efficaci misure di polizia. Sicuro del successo, e certo di vivere senza l’incubo di possibili alternative ravvicinate, il governo da Brescia lancia il segnale eloquente di una totale condivisione della ideologia della confindustria (e delle tecnocrazie europee che esigono lo scalpo del sindacato del conflitto).

Il contenuto di classe dell’esecutivo, sinora ben camuffato dalla camicia bianca, dagli infiniti travestimenti ludici del leader che vaga per le scolaresche e dà il cinque ai bambini per strada, ora può affiorare in un modo indisturbato. Senza fastidiosi infingimenti, il governo criminalizza il conflitto, espunge dal vocabolario pubblico la parola indesiderata “padroni”, condanna il mondo del lavoro alla gogna e lo dipinge quale ceto di privilegiati che bloccano la modernizzazione e spingono verso il declino.

Il peculiare amalgama del renzismo, e cioè carezze ai poteri forti da sempre suoi amici e recita a soggetto sullo spartito dell’antipolitica, è saltato. Il volto della confindustria che si accanisce su battaglie identitarie conferisce al governo un marchio peculiare. L’universo padronale pare ancora forte per orientare, incidere, condizionare ma non è così potente da garantire uno sfondamento elettorale. Consapevole dei numeri elettorali scarsi a disposizione dei poteri forti, neppure Berlusconi aveva mai ridotto la sua coalizione alla ragnatela confindustriale e al comparto finanziario preoccupandosi anzi di penetrare nei mondi periferici con manifesti contro le élite, con simbologie populistiche.

Ora Renzi tenta quello che a nessuno è mai riuscito, cioè un governo e un partito unico in perfetta simbiosi con ciò che resta del grande padronato italiano. L’azzardo scaturisce dalla percezione forte che, dopo la sua scalata celere ai vertici del potere, nel ceto politico in via di completa omologazione culturale nessuno gli farà scherzi di cattivo gusto. Tranquillo nel palazzo, e convinto di aver addormentato anche la base con la paternalistica concessione di poter tenere ancora le feste dell’Unità, Renzi decide di correre il rischio dello scontro aperto con la Cgil. Lo fa per tentare un prosciugamento definitivo delle risorse elettorali della destra in affanno, e per ingraziarsi i favori di Bruxelles in vista di una qualche flessibilità nei conti.

Accantona perciò la seduzione populista e ingaggia delle battaglie altamente simboliche per catturare il consenso moderato e cancellare in maniera irreversibile il ricordo della vecchia sinistra.

Senza più contare in efficaci sponde politiche, nel clima contagioso del grande partito unico della nazione che in nome del bene comune isola i disobbedienti, il lavoro rimane l’unico focolaio di resistenza. Privo di ogni rappresentanza politica riconoscibile, lo scontro sociale ripiega nella piazza e la frequenta come un terreno obbligato. Si svolge così una partita inedita, che il sociale, dinanzi al governo che denuncia la trattativa come un misfatto, è costretto a giocare al di fuori delle istituzioni. Non può sottrarsi alla prova di forza, anche se attorno al lavoro risuona il triste rumore della sua solitudine politica.

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