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Il lavorismo antico dei giovani Turchi

Il lavorismo antico dei giovani Turchi/var/www/vhosts/ilmanifesto.co/ems/data/wordpress/wp content/uploads/2014/01/01/intervento san precario – foto Biaggianti

Occupazione Le indiscrezioni sul Job Act di Matteo Renzi non convincono una parte del suo partito. Ma le divergenze riguardano solo l'uso dei ammortizzatori sociali. Infatti, nulla viene detto su come adeguare il welfare state alla diffusa precarietà. E poco viene proposto su come alzare i salari e i redditi da lavoro

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 1 gennaio 2014

Dopo le anticipazione sul Job act del nuovo segretario del Pd Matteo Renzi, è cominciata una discussione a sinistra su come intervenire di fronte alla drammatica situazione occupazionale e soprattutto della caduta dei salari e redditi da lavoro. Alla proposta di Renzi hanno risposto, tra gli altri, i «giovani Turchi» del Pd e San Precario (sul suo blog ospitato dal sito del «Fatto quotidiano»). Vediamo i punti in discussione.

Il modello di Renzi fa esplicito riferimento al modello danese, dove la protezione sociale per i lavoratori è particolarmente elevata come pure la flessibilità del lavoro. È il modello della flexsecurity, cavallo di battaglia di Ichino ai suoi tempi d’oro, quando dettava la linea sul lavoro per il Pd, prima di passare nelle file di Monti. Renzi ribadisce di fatto la politica dei due tempi, più volte denunciata da «San Precario» e, oggi, finalmente, anche dai «giovani Turchi» del Partito democratico. Il primo tempo richiede ancora una volta la disponibilità a rinunciare ad alcuni diritti fondamentali, in vista di un secondo tempo che dovrebbe garantire, in un futuro irreale, una minima sicurezza sociale. Non stupisce quindi la proposta «rivoluzionaria» di Renzi (che ha subito ottenuto il plauso di Confindustria): i giovani neo assunti con contratto a tempo indeterminato devono rinunciare alle già scarse (post riforma Fornero) tutele dell’art. 18 contro il licenziamento indiscriminato, almeno per i primi tre anni.

La trappola della flessibilità

Tale proposta trova la contrarietà sia di San Precario che dei «giovani Turchi». Secondo il primo: «in tal modo, non si fa altro che certificare ciò che è già prassi nel mondo del lavoro. Oggi, infatti, secondo i dati del Ministero del lavoro, l’80% delle assunzioni avvengono con tipologie precarie (solo il 2,4%, con buona pace di Fornero, per apprendistato, oltre il 60% per contratti a tempo indeterminato). Ciò significa che solo 2 su 10 hanno un lavoro stabile. Rendere instabile tale 20% per tre anni con la liberalizzazione dei licenziamento non sembra quindi una grande innovazione!»

Sulla stessa lunghezza d’onda si collocano i giovani Turchi, quando scrivono «la maggior flessibilità alla lunga non ha prodotto maggiore occupazione …. La tesi tuttora in voga secondo cui un lavoro precario sarebbe meglio di nessun lavoro (…) è smentita da quasi tutte le ricerche più recenti: quanto più si passa da un lavoro atipico all’altro, tanto maggiori diventano le probabilità che scatti la cosiddetta “trappola della precarietà”, ovvero la permanenza in uno stato di discontinuità lavorativa».

Fin qui tutto bene. Ma l’importante non è la caduta ma l’atterraggio.

Le posizioni divergenti tra San Precario e i giovani Turchi cominciano quando Renzi auspica una riforma degli ammortizzatori sociali proponendo un unico sussidio di disoccupazione.

Secondo San Precario, piuttosto che dell’allargamento del sussidio di disoccupazione, sarebbe necessario parlare di secur-flexibility, ovvero introdurre prima forme di garanzia incondizionata di reddito, in grado di sostituire progressivamente l’attuale iniquo, distorto e selettivo (quindi inaccettabile) sistema di ammortizzazione sociale e solo dopo discutere di regolazione del mercato del lavoro.

Sullo stesso punto, i giovani Turchi la pensano assai diversamente: «Desta un certo stupore che si immagini di sostituire gli ammortizzatori attuali con un sussidio di disoccupazione universale a parità di risorse. Quand’anche fosse possibile trovarne molte di più di quante oggi disponibili (e non lo è), sarebbe preferibile far pendere la bilancia più dalla parte della creazione di nuovo lavoro che su misure di questa natura che (…) finirebbero per divenire un pozzo senza fondo che risucchierebbe ogni risorsa e con esse ogni residua possibilità di rilancio del paese».

Le obiezioni dei giovani Turchi derivano dal vincolo di bilancio pubblico. Ah, se ci fossero più soldi! D’altra parte, anche loro hanno votato compatti le politiche di austerity, ieri di Monti e oggi di Letta.

Tuttavia, i giovani Turchi non negano che ci sia anche una crisi dei redditi, ma paventano un possibile effetto sostituzione tra reddito e salario, a danno della busta paga del lavoratore. «Da questo punto di vista si può valutare l’introduzione di un “equo compenso” per tutte quelle professioni non coperte da contrattazione collettiva, affiancato dalla possibilità di concertare con i sindacati,(…), la possibilità di definire la retribuzione minima per professionalità omogenee, non su scala nazionale, ma su base territoriale».

Perché non avere il coraggio di proporre un salario minimo orario, su scala nazionale? Perché, di fronte al dato che la contrattazione nazionale copre poco più della metà degli occupati, si è ottusamente contrari a proporre chiaramente un minimo salariale che impedisca il dumping sociale verso il basso e il perpetuarsi della trappola della precarietà?

La risposta sta nella covinzione fideistica che solo creando posti di lavoro si creano le condizioni per migliorare il welfare. Ovvero credendo che sia l’offerta a creare la domanda, come se fosse valida la legge di Say. Conclusione: un intervento sul welfare non è in grado di definire una strategia in grado di rispondere alla domanda: come creare lavoro?

Nell’analisi dell’attuale paradigma di valorizzazione capitalistica tra i giovani Turchi e Renzi vi è perfetta sintonia, stesso atterraggio: la differenza riguarda la policy, ma nello stesso quadro teorico social-liberista, tutto interno alle logiche di compatibilità di sistema. Entrambi si muovono ancora nella tradizione fordista, magari riverniciata di fresco: credono ancora nella separazione tra tempo di lavoro e non lavoro, tra produzione e riproduzione, tra produzione e consumo, tra salario e reddito. Entrambi non si rendono conto che oggi la ricchezza viene prodotta dallo sfruttamento della cooperazione sociale, ovvero delle economie di apprendimento e di rete; che la precarietà è soprattutto esistenziale perché rappresenta il paradigma della vita messa a lavoro e a valore (per pochi); che non può quindi esserci differenza tra politiche del lavoro e politiche di welfare e che la disoccupazione, come la precarietà, è attività produttiva mai o solo parzialmente remunerata: intervenire a sostegno al reddito significa oggi intervenire a sostegno dei salari e a favore di politiche per l’occupazione.

Un lavoro senza fine

Fare affidamento sull’intervento statale come fonte di lavoro – come sostengono i giovani Turchi – può essere di aiuto ma non è il modo con cui fuoriuscire dall’attuale situazione. In un contesto in cui, lungi dall’essere alla «fine del lavoro», siamo piuttosto al «lavoro senza fine»: il problema non è «creare lavoro», ma piuttosto retribuire quel lavoro «produttivo», che oggi non è né certificato, né contrattualizzato, ma socialmente diffuso. Per questo è necessario e più efficiente realizzare un piano per il reddito minimo incondizionato più che un piano per il lavoro (che per essere realizzato deve comunque fare affidamento su uno Stato e una classe imprenditoriale, entrambi corrotti e incapaci) .

L’obiettivo è archiviare la sequenza «risanamento, crescita, occupazione» non con la sequenza «occupazione, crescita, risanamento», ma con quella più efficace e equa «sicurezza sociale (reddito e servizi sociali), crescita qualitativa, risanamento (produzione dell’uomo per l’uomo)».

Ancora una volta, il nuovo (sia che si tratti di Renzi o dei giovani Turchi) tende ad ammantarsi di vecchio, anzi d’antico.

 

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