Grazie alle regie di Mario Martone, l’opera verdiana va assumendo un senso e una profondità diversi da quelli tradizionali, almeno per l’occhio e l’orecchio dello spettatore contemporaneo. Oberto conte di San Bonifacio, ambientato in una Little Italy malavitosa e pacchiana che sembrava citare De Palma, l’Otello realizzato al San Carlo in un campo di occupazione militare (e per qualche aspetto, o almeno sentore, ci si potrebbe legare anche il Falstaff berlinese alla Staatsoper con il bilancio atroce di una vecchiaia beffata) e ora questo Rigoletto scaligero, ci vanno scoprendo un Verdi sempre genio della musica e del racconto, ma molto meno edulcorato o buonista di quanto siamo stati abituati a considerare. Tutte le scene di questo Rigoletto si svolgono nelle diverse facce di una enorme struttura circolare e rotante, mirabilmente creata da Margherita Palli.

IL SUO MOVIMENTO, con un senso di attonita e immobile assuefazione al «male», evoca un mondo guastato, alla Parasite, dove la vil razza dannata resta ben aggrappata al proprio parassitismo. Anche se per lo spettatore italiano di oggi c’è il rischio di qualche ulteriore lampo. È quando dalla casetta modesta di questo Rigoletto, entertainer nostro contemporaneo (niente gobba o vesti da pagliaccio, ma abbacinante giacca argentata da imbonitore, e un interprete di grande voce e di forte presenza scenica) si passa alla lussuriosa dimora del Duca di Mantova, con tutte le sue sgallettate e scatenate ospiti, che i processi ancora in corso di cui si legge sui giornali ci rimandano forzosamente alla «letteratura» delle Olgettine. Non perché il Duca di Mantova debba oggi abitare ad Arcore, ma solo per la necessità molto naturale di trovare una discendenza anche alle peggio cose. E anche la «giustizia» entra da protagonista in questa bella e struggente opera verdiana, di cui Martone scopre ogni risvolto, proprio per il suo «fallimento». La povera Gilda, violata eppur sempre più attratta dal nobile e ricco lazzarone, porta un’altra contraddizione essenziale, che l’incrostato buon senso perbenista vive senza confessarlo.
Insomma sulle celeberrime arie verdiane si aprono spiragli di riflessione non piccoli. Rimanendo ammirati dalla bellezza dello spettacolo, ma scoprendo anche perché Verdi abbia scelto un testo poco conciliante come Le roi s’amuse, rispetto ad altri di Victor Hugo più commoventi e meno problematici.