Il lascito migliore della simbiosi ebraico-tedesca
Classici dell'ebraismo Il filosofo tedesco mostra come la Bibbia sia voce prima che testo, in questa versione ora proposta da Quodlibet e accompagnata da testi illuminanti
Classici dell'ebraismo Il filosofo tedesco mostra come la Bibbia sia voce prima che testo, in questa versione ora proposta da Quodlibet e accompagnata da testi illuminanti
Berlino, maggio 1925: Lambert Schneider, giovane di famiglia cattolica, fonda una nuova casa editrice e la intitola a sé. Inaugurando il catalogo, il giovane editore pone la prima poderosa pietra: una nuova edizione della Bibbia. La scelta del curatore cade su Martin Buber, voce autorevole in Germania da almeno un ventennio. Buber accetta l’offerta, ponendo come condizione netta l’intervento di Franz Rosenzweig, pensatore che, giunto alle soglie del cristianesimo, aveva rivolto i suoi passi verso l’ebraismo scegliendo un’appartenenza piena alla religione dei padri. Un’appartenenza che, nel 1921, aveva trovato il suo suggello nella Stella della redenzione. Di fronte a un compito così alto, sebbene già segnato da quell’infermità che per stadi successivi gli toglierà ogni autonomia, Franz Rosenzweig non si tira indietro.
Per qualche mese, il progetto avrà contorni incerti: dapprima una nuova edizione della Bibbia di Lutero e infine, dopo un tentativo fallito di modifica dell’esistente, una traduzione nuova, dall’ebraico al tedesco.
Prende avvio, così, una delle imprese più coraggiose e sconfinate dell’intero Novecento, che scandirà le ultime battute della storia ebraica in Germania prima dello sterminio. Una traduzione integrale, condotta a quattro mani fino alla morte di Rosenzweig nel 1929, e conclusa dal solo Buber trent’anni più tardi, sotto il cielo di Gerusalemme. Negli anni della collaborazione, il lavoro sarà intenso e continuo, non conoscerà soste e di rado permetterà incroci tematici, attraversando i primi dieci libri biblici e arrivando a toccare Isaia. Procederà insieme alla malattia di Rosenzweig e nella stessa malattia avrà sprone e vincolo.
All’avvio dell’opera, è Rosenzweig il traduttore esperto: solo l’anno prima ha reso in tedesco sessanta inni e poesie dall’ebraico medievale di Yehudah ha-Levi. Senza di lui, che si è già spinto in profondità nella lingua ebraica concedendosi contorsioni linguistiche di ogni tipo per la sua restituzione totale in tedesco, la traduzione biblica, nel suo prendere le mosse, non avrebbe avuto un tratto così deciso. Deciso perché non esiste altra versione della Bibbia che, al pari di questa, riversi tutto l’ebraico dentro un tedesco che, al contatto con strutture linguistiche straniere, diventa scabro e tocca i confini del dicibile ma che, come mai prima, apre squarci inattesi e rivelatori sul testo originale. È dentro questa traduzione, forse, il lascito più bello della simbiosi ebraico-tedesca.
All’ermeneutica biblica di Franz Rosenzweig, l’editrice Quodlibet dedica un volume che raccoglie i saggi e le lettere composti tra il 1925 e il 1929 e che, a cinquant’anni dalla chiusura della traduzione, ne rilancia l’attualità: La Bibbia ebraica. Parola, testo interpretazione, a cura di Gianfranco Bonola, Claudia Milani, Renato Bigliardi (Quodlibet, pp. 249, euro 22,00). I curatori operano una scelta sapiente di scritti che, in un ordine più tematico che cronologico, restituiscono intera l’idea di Scrittura che Rosenzweig elabora in questi anni. Allineate una all’altra e corredate da un corposo apparato di note, queste testimonianze illuminano la riflessione che Rosenzweig, di pari passo alla traduzione, conduce intorno alla Bibbia ebraica e alle sue caratteristiche. In apertura, i curatori mettono uno scritto tardo, Il significato universale della Bibbia, che disegna il cammino della Scrittura nella storia dell’umanità. Seguono L’unità della Bibbia e La scrittura e la parola.
Nel primo, Rosenzweig segna i confini del suo pensiero nel distacco sia dall’ortodossia sia dal metodo storico-critico di marca soprattutto protestante che, questa la sua opinione, avrebbe ridotto la Scrittura a brandelli, sacrificando la totalità al frammento senza più coesione interna. Nel secondo, la distanza dalla critica biblica è altrettanto nitida: lì dove questa dà rilievo alla testualità, lo sguardo di Rosenzweig è attento a riportarne alla luce la componente orale. Prima che parola scritta, la Bibbia ebraica è voce. Una voce che, dentro il testo, suona nell’essenzialità robusta del precetto e nello slancio della lode. E fuori dal testo risuona in secoli di letture solenni o sommesse. La legge organica della parola biblica presiede al lavoro di traduzione e giustifica la sua composizione in «unità di respiro», ciascuna corrispondente a un’emissione di fiato, prolungate fino all’irrompere di quella che Rosenzweig, molto prima di Paul Celan, chiama «svolta del respiro». Fanno seguito i due grandi scritti L’eterno: Mendelssohn e il nome di Dio e La Scrittura e Lutero, forse il cuore di questa raccolta, dove Rosenzweig si confronta con altri due traduttori le cui versioni sono, entrambe, snodi culturali: l’avvio dell’integrazione ebraica nella società tedesca nel caso di Mendelssohn, e nel caso di Lutero addirittura la nascita del tedesco moderno. Rosenzweig ne fa risaltare il pregio e i punti di contatto con la traduzione sua e di Buber, ma anche, soprattutto nel caso di Lutero, la distanza che giustifica il nuovo.
Il pensiero di Rosenzweig affiora nel succedersi di pagine che alternano il respiro ampio del saggio alla scrittura più densa delle lettere, le recensioni alla Encyclopaedia Judaica alla replica alle critiche che accompagnano l’apparire della Genesi tradotta. Da tutti gli scritti emerge, con chiarezza abbagliante, l’immagine della Scrittura come opera unitaria che, pur accogliendo le parole di generazioni, abbraccia la totalità e parla all’oggi.
Chiude il volume un saggio acuto di Gianfranco Bonola che in questa colossale traduzione della Bibbia e nel suo estremo, a tratti disperato, letteralismo scorge un tentativo, forse l’ultimo possibile, di porre un argine alla secolarizzazione attraverso un testo che parli alla fragilità dell’uomo, restituendo, se non la certezza della fede, almeno una speranza.
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