ExtraTerrestre

Il larice senza tempo

Il larice senza tempo

Arbor maxima «Lou merze gros», lo chiamano così gli abitanti di Pietraporzio (Cuneo). È un grande albero di una monumentalità familiare che da secoli giganteggia solitario

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 24 novembre 2022

Antichità e attualità si rincorrono costantemente quando la scrittura autobiografica incontra gli elementi naturali, le pratiche spirituali, la storia umana. Non a caso mi piace dire che il mio personalissimo torrente esistenziale fluisce tra boschi concreti e boschi cartacei, i poli di un piccolo mondo cucito tra la carta e la corteccia. Ho attraversato tante foreste e visitato grandi alberi, mi sono inchinato a loro e tra di loro spesso ho coltivato il mio irrequieto e dispettoso tentativo di fare silenzio. La trama della nostra identità percepisce il richiamo delle distanze, di quell’ignoto, di quel brulichio di esistenze che vive senza rispettare le nostre regole: da una parte le antiche parole, le voci dei saggi, la conoscenza, le domande e le risposte, e dall’altra il richiamo delle selve che desideriamo attraversare, esplorare, toccare. Se conoscere è un compito che in quanto cittadini di un mondo popolato ci viene richiesto, che cosa ci porta invece laddove resistono gli animali selvatici, dove l’umano è così remoto e scarso, dove pulsa qualcosa di arcaico quanto la vita stessa?

TRA GLI ALBERI MATUSALEMME che ho visitato ve n’è uno in Piemonte che torno spesso a visitare. Localmente è noto come Lou merze gros, il grande larice, per gioco lo chiamo l’Eremita di Pietraporzio. Cresce sulle montagne sopra l’abitato di Pietraporzio, in alta Val Maira, nel cuneese. L’ultima volta che sono stato ai piedi delle sue radici e del suo tronco colossale ho pensato: cinque, sei, forse sette secoli di radicamento? Ma il tempo non esiste, esistiamo noi ed esisti tu quando ci incontriamo…

LO SCORSO NOVEMBRE SONO TORNATO in alcune città per presentare il mio ultimo silvario dedicato agli alberi millenari. A Torino è venuta ad ascoltare una signora con una ragazza che poi ho scoperto essere la figlia. Mi ha detto che quando lo aveva visitato molti anni addietro nessuno sapeva che fosse un albero di pregio, ma lei se ne ricordava bene. Alcune settimane dopo la figlia mi ha mandato le fotografie che sua madre aveva preparato, due erano dedicate al larice. Nella didascalia, a penna, la Giuliana ha scritto: Primavera 1959 (o 60?). Verso lo Zanotti. All’epoca non sapevamo che fosse un albero famoso, ma ci colpì per la sua maestosità e familiarità nello stesso tempo. La signora oggi ha ottantasette anni e nella foto era una giovane donna a fianco del marito, in un paesaggio completamente ricoperto di neve, ai piedi della pianta monumentale. Al tempo si partiva con gli sci dalle case dell’abitato e si risaliva la ripida carrozzabile forestale, avviandosi lungo il sentiero che conduce al Rifugio Zanotti. Sessant’anni dopo lei è di fronte a me, sorridente. Poi dicono che la macchina del tempo non esiste! Monumentalità e familiarità, due caratteri che gli amanti dei grandi alberi sentono battere all’unisono.

QUANDO ERO RAGAZZO LA PRESSIONE mi piaceva, quell’intrico ingarbugliato di desideri, ambizioni, traguardi, cose da fare, cosa da pensare, cose da realizzare era rinvigorente, eccitante, mi spronava a mettere in gioco tutte le energie di cui disponevo. Inoltre, essendo figlio di un falegname e di una cucitrice e poi un orfano del mondo, era facile desiderare qualcosa che mi mancasse, oltremodo ogni cosa che vedevo come letteraria, poetica, artistica o culturale. Un quarto di secolo dopo diversi traguardi sono stati raggiunti e al contrario, quando nella mia mente si accalcano progetti, ipotesi di lavoro, impegni, l’assembramento mi deprime, mi toglie le energie invece di alimentarne.

E così devo staccare, fare qualche passo indietro, restare solo, isolarmi, fissare fuori la finestra e fare silenzio, puliziare, insomma sgomberare l’aula. Soltanto facendo una o due cose al giorno riesco a lavorare, quando si intrecciano troppe trame non finisce bene. Tutto un altro modo di affrontare il giorno. Non saprei dire se sia una maturata saggezza o semplicemente la nuova frontiera che il mio corpo appesantito dalle stagioni mi impone, ma capisco bene che il sentiero è stretto e faticoso, talora, ripido e pietroso, talora, in moderata discesa e rassicurante, talora. E quando debbo prendere distanza tornare a meditare con più frequenza tra i boschi e visitare grande alberi è sempre una panacea per lo spirito e questo fragile equilibrio.

E COSI’ QUEL GRANDE ALBERO che la Giuliana vide da giovane, felice, affaticata, con la faccia congelata tra ondate di neve fresca, oggi è qui, mi accoglie come se fossi il suo primo pellegrino, o l’ultimo. Io l’ho visto sempre senza neve, nel fulgore del sole che gli sbatte contro e lo illumina, nelle sue cortecce rugginose, la chioma ancora folta, il sentiero serpentino che transita sulle sue radici esposte. Sul suo tronco, nel 1935, gli alpini del Battaglione Dronero hanno agganciato una pietra nella quale si può leggere del loro passaggio, con la lingua della gente, quel dialetto-mondo che incarna sentimenti, superstizioni e immancabili colpi di teatro: I loma fait polissia, abbiamo pulito. E cos’è la meditazione se non fare pulizia? Meditare nel colmo del silenzio cantato di un bosco o di una foresta remota ci riporta a quella curiosa condizione da uomini al principio del mondo che Jacques Brosse (1922-2008), il celebre storico degli alberi, accademico di Francia e nella sua ultima parte di vita monaco zen ha colto in una poesia e invocazione: Alla fine del deserto / alla fine della notte / c’è un’allodola che canta.

È CURIOSO OSSERVARE IL BOSCO INTORNO ad un grande albero. Inequivocabilmente questo gigante è qui da prima di tutti gli altri soggetti che ora gli occhi miei stanno accarezzando, eppure è come se nel bosco l’età e la dimensione non contassero così tanto. Un bosco vive benissimo senza i più antichi custodi, mentre muore se non vi sono nuove generazioni che subentrano, ma tutte queste informazioni e capacità di adattamento inlignite, custodite nei più vecchi e ombrosi non saranno di utilità anche agli altri? L’interconnessione radicale che unisce molti di questi signori non riceverà dei benefici dalla presenza di alberi che hanno attraversato i secoli quando non addirittura i millenni? Quanti casi, quante stagioni, quanti andamenti, quante soluzioni di sopravvivenza avrà immagazzinato un grande albero?

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento