Visioni

Il labirinto di «Don Carlos» alla nevrotica corte spagnola

Il labirinto di «Don Carlos» alla nevrotica corte spagnola

Opera A Lione un omaggio a Giuseppe Verdi. L'allestimento dello spettacolo è di Christophe Honoré

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 23 marzo 2018

Tre titoli verdiani in tre giorni: non siamo a Parma, ma a Lione, dove il festival d’opera che apre la primavera presenta in sequenza Macbeth, Don Carlos e Attila in versione concertante. Impegno gravoso per un teatro che si è distinto nell’ultimo quindicennio presentando rarità franco-tedesche e incrociando sovente il barocco all’opera contemporanea, creazioni comprese, ma che di Verdi conosce appena qualche opera di repertorio.

Titolo principale era Don Carlos, nuova produzione della prima versione del 1867 a Parigi, con l’apertura dei tagli effettuati fra generale e prime due recite, l’inizio di un’intricata vicenda che ci ha lasciato cinque versioni di cui quelle italiane in quattro e cinque atti restano le più popolari. Eppure indagare l’aderenza tutta personale del genio teatrale di Verdi al modello del grand-opera è esercizio fertile e felicissimo, con scoperte di musica bellissima nei duetti virili e nella scena del compianto di Posa.

L’allestimento di Christophe Honoré – scene di Alban Ho Van e costumi di Pascaline Chavanne – dipingeva un cinquecento buio, con pesanti tendaggi e gigantesche, cupe tele religiose: una corte spagnola neurotica in cui Schiller sembra dare la mano a Chereau e perfino a Fassbinder. Il debole «Infante» Carlos si perde via via in questo labirinto, schiacciato dall’amore impossibile per Elisabetta e dal potere paterno, sempre assediato dallo spettro di Carlo V, enigmatico monaco bambino che nell’ultimo atto lo trascina infine nella tomba dell’Imperatore.

Il nero trionfa ovunque e i colori degli abiti popolari e l’oro dei sovrani accendono solo la scena dell’Autodafé, nel terzo atto: una spaventosa struttura di spalti tripartiti, che incorniciava i danzatori della precedente e assai poco lieta orgia notturna, simbolicamente trasformati in condannati allo spettacolo del rogo. Sicuri nel canto e nella dizione francese l’altero Filippo II di Michele Pertusi, l’inesorabile inquisitore di Roberto Scandiuzzi, il Posa composto di Stéphane Degout e il frate di Patrick Bolleire.

La flessibile vocalità rossiniana di Sergey Romanovsky veniva a capo della parte di Don Carlos con crescente sicurezza, dopo qualche esitazione. Sally Matthews era un’Elisabetta appassionata ma tendente al grido mentre Eva-Maude Hebeux spiccava come Eboli insinuante e elegantissima, apprezzabile anche nell’ardua gestione della sedia a rotelle (la gamba offesa sostituiva con ben altra evidenza la benda all’occhio, offrendo una soluzione fin troppo facile allo scambio fra la dama e la regina).

Daniele Rustioni ha concertato con sensibilità e equilibrio, attentissimo alle sfumature e alle dinamiche del canto, ottenendo il meglio dal coro e da un’orchestra non sempre impeccabile e poco abituata alla «cavata» e ai colori verdiani. Successo vivissimo per tutti. Meno felice il Macbeth, riproposto nello spettacolo del 2012 di Ivo van Hove, che spostava la vicenda nel recinto della borsa, durante l’onda di Occupy Wall Street. Una ripresa resa opaca dall’affievolito legame con l’attualità e da un cast mediocre in cui si salvavano solo il Banco di Scandiuzzi e – ai punti – il ruvido protagonista, Elchin Azizov. In occasione dell’apertura del festival Serge Dorny ha ufficializzato i titoli lionesi del 2019, fra cui spiccano L’incantatrice di Caikovksij, Rodelinda di Handel e la rarità Romeo und Julia di Boris Blacher.

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