Il jazz parla ancora con Joel Ross e Unruly Manifest
Dal vivo Alla Casa del Jazz di Roma due concerti vivificanti per il genere e non solo
Dal vivo Alla Casa del Jazz di Roma due concerti vivificanti per il genere e non solo
Quando si esce da un concerto carichi di energia e convinti, sinceramente, che il jazz sia ancora un linguaggio vivo che abita il presente – proiettandosi nel futuro – è successo qualcosa. È successo che il 16 la rassegna capitolina Summer Time, alla Casa del Jazz, ha proposto il settetto guidato dal 28enne vibrafonista di Chicago Joel Ross ed il quintetto Unruly Manifest, capitanato dal tenorsax (originario di Buffalo, 40enne) James Brandon Lewis. Due poetiche diverse ma altrettanto fertili, visionarie, contemporanee.
Ross si è subito affermato dopo il debutto discografico nel 2019 con la Blue Note. A Roma ha presentato materiale dal suo ultimo album The Parable of Poet. Il piano (Sean Mason) schierato vicino al vibrafono del leader-compositore; al loro fianco la sezione fiati (Maria Grand, sax tenore; Marquis Hill, tromba; Godwin Louis, alto) e dietro il contrabbasso (Rick Rosato) e la batteria (Craig Weinrib). I brani proposti hanno messo in luce una costruzione collettiva, con ritorni dei temi ed un ruolo «interstiziale» per i solisti. Il jazz di Joel Roos poggia su una scrittura di base arricchita nella performance di elementi timbrico-improvvisativi, di tessiture luminose, di un gioco a cavallo tra un «morbido» e swingante minimalismo e la composizione a strati di Mingus. In un’intervista ad A.Soukizy («Musica Jazz», 5/2022) Ross ha affermato di considerare l’album come un lavoro di squadra, con ogni «parabola» aperta alla libera interpretazione, il tutto basato su un nucleo artistico che lavora su dialogo, condivisione, confronto, comunicazione. Jazz come relazione tra pari, interrelazione possibile, progetto di gruppo.
Il tempo del cambio palco per essere travolti dall’Unruly Manifest: James Brandon Lewis (leader e sax tenore), Kirk Knuffke (cornetta), Anthony Pirog (chitarra elettrica), Shahzad Ismaily (basso ed elettronica) e Ches Smith (batteria). Con loro saltano tutte le categorie e si fondono suoni e linguaggi, tra rock e free jazz, fusion e avantgarde: una musica che ha molto in comune con l’arte graffitistica di Jean-Michel Basquiat. Lewis (come i suoi partner) è all’interno di vari progetti: il sassofonista guida, tra l’altro, il quartetto Molecular ed un power trio con C.Hoffman e M.Jaffe, collabora con poeti e artisti.
La sua è, ormai, una figura di sicuro riferimento non solo a New York. Il gruppo prende il nome da un album del 2019 e rappresenta il fronte più radicale della musica di Lewis, supportato magnificamente da tutti ma, in particolare, dalla batteria iconoclasta del geniale Ches Smith e dal bassismo ruvido e lirico di Ismaily (membri peraltro del trio di Marc Ribot, Ceramic Dog). La ritmica è, a tratti, post-metal mentre i suoni sono spesso eccessivi e iperbolici, allucinati. La forza e l’impatto del rock si sposano al solismo del jazz (Knuffke è un Lester Bowie del XXI secolo), mentre energia, polifonia e free collassano. James Brandon Lewis parla poco ma ringrazia uno dei suoi maestri (Charlie Haden) e si richiama ad un testo del 2009 (edito da Robin D.G. Kelley e Franklin Rosemont) che si chiama Black, Brown ad Beige: Surrealist Writings from Africa and the Diaspora. Musica davvero surrealista e dedica, dolente, all’eccellente trombettista Jaimie Branch, scomparsa 39enne nel 2022. Non sembra che il jazz si stia esaurendo.
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