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Il grido d’allarme dei poligrafici

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Stati generali dell'editoria I lavoratori della comunicazione e della stampa al governo: serve tavolo strutturale di filiera, una riforma dei prepensionamenti e investimenti pubblici su vecchi e nuovi media. Il capo dipartimento Editoria: «Lo stato non sperpera sui contributi diretti, anzi , per certi aspetti l’Italia è sotto la media Ue»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 14 giugno 2019

Niente slide per i poligrafici. Né consulenti o studi da mostrare al popolo dello streaming. Né sottosegretario, impegnato altrove contro Radio radicale e su altri provvedimenti.

La sesta giornata degli stati generali dell’editoria si risolve così in un malinconico giro di microfono tra i sindacati (Cgil, Cisl, Uil e Ugl) di tipografi, impiegati e operai delle aziende editoriali e della comunicazione e i vertici del dipartimento editoria.

Quella che per tutto il secolo scorso è stata l’aristocrazia della classe operaia oggi è al disastro nel disinteresse generale. I tipografi erano operai colti, a contatto con il potere politico e le élite culturali ed economiche, e anche nell’era della telefonia e dell’informatica i poligrafici fino agli anni ‘80 erano operai specializzati nel settore tecnologico di punta. Il meteorite del digitale e delle piattaforme sembra averli trasformati in dinosauri nell’arco di appena un ventennio.

Eppure, si sforza di inquadrare il problema il capo dipartimento Editoria Ferruccio Sepe, «non stiamo parlando di posate o bicchieri ma di un bene essenziale e costoso quale l’informazione e il pluralismo».

Tutta la filiera è in difficoltà e reclama attenzione dallo stato.

Ma i poligrafici hanno subìto l’innovazione tecnologica e dei costumi come uno tsunami. «Bisogna sviluppare il mercato editoriale, gli indici di lettura sono drammatici», dice Pezzini della Cisl. «Dobbiamo garantire il futuro ai media tradizionali e creare nuova occupazione sostenibile in quelli emergenti», avverte Guida della Cgil. «Solo l’uomo colto è libero, e il digitale da solo non basta», chiosa Musu della Uil. «Perché il mercato non si autoregola – aggiunge Ulgiati dell’Ugl – l’informazione dipende soprattutto da tanti piccoli editori, non da due o tre multinazionali».

La richiesta è corale: serve un tavolo permanente del settore, con risorse pubbliche mirate sulle ristrutturazioni, un sostegno intelligente, partecipato e generoso.

Sepe, in assenza del governo e per quanto un tecnico, ammette che «il cambiamento è troppo veloce, sappiamo cosa stiamo perdendo ma non sappiamo ancora cosa guadagneremo». In passato però le risorse pubbliche, precisa, non sono mancate né per i prepensionamenti né per gli editori in generale, anche se l’ultimo taglio è stato deciso. E anticipa i risultati di un prossimo studio: in molti paesi europei il sostegno pro capite al giornalismo nelle varie forme è molto più alto che da noi: «I contributi diretti all’editoria pesano in Danimarca 8,6 euro per cittadino; in Italia 1,6 euro. Lo stato non sperpera, come vorrebbe un certo luogo comune – conclude Sepe – anzi per certi aspetti siamo sotto la media europea».

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