La conversazione con lo scienziato narratore Stefano Mancuso prende le mosse quasi per caso dalle piante amanti degli scogli, schive ma fortissime, pioniere tenaci, esempio fulgido di resistenza, e il discorso finisce inevitabilmente su ecologia ed economia: parole che hanno casa nel loro etimo e si legano a doppio filo al concetto della nostra dimora (in fiamme, come suggerito dalla ragazza dei Friday for future), pianeta che abitiamo come i più molesti tra i condomini, per giunti arrivati buon ultimi dopo muffe, plancton, felci, sequoie e quadrupedi, in virtù di un incommensurabile colpo di fortuna. È Primo Levi ad osservare nel Sistema Periodico che «se l’organicazione del carbonio non si svolgesse quotidianamente intorno a noi… dovunque affiori il verde di una foglia, le spetterebbe di pieno diritto il nome di miracolo».

Ci sono piante che nascono per viaggiare, munite di seme impermeabile. La natura sa cosa dovranno passare e le dota di un salvagente da subito…

Succede alle piante alofite, che vivono utilizzando l’acqua del mare che, anche in quantità minima, è di norma tossica per la vita vegetale. Queste piante sono preziose, cruciali per la messa a punto alla soluzione di un problema fondamentale: la questione dell’acqua dolce che rappresenta il 3% della riserva idrica terrestre, una quantità piccolissima oltretutto in parte bloccata ai poli (che sciogliendosi la riverseranno in mare), in parte situata in tale profondità da non essere servibile. E dire che l’acqua dolce è l’unica che si utilizza in industria e in agricoltura. Sul mappamondo si può tracciare una linea della siccità che tocca territori in cui cadono meno di 100 ml di acqua all’anno: è verificato che nell’area che si estende 50 km sopra e 50 km sotto questa linea si concentra il 90% dei conflitti attivi al mondo. Questo a rimarcare come la sempre minore disponibilità d’acqua incida in maniera pesante sulla nostra esistenza. Per venire a capo del problema è fondamentale proprio lo studio del comportamento delle piante alofite, di come riescano a cavarsela utilizzando solo l’acqua salata. Tutte le specie appartenenti al genere Cakile, proprio per le modificazioni sia anatomiche che fisiologiche che consentono loro di crescere dove per altre piante la sopravvivenza sarebbe preclusa, rappresentano una miniera di informazioni.

Per giunta sono piante migranti…

Sì, e hanno una peculiare modalità di propagazione; tutte le piante al momento della diffusione del proprio seme sono di fronte a un dilemma: mandarlo lontano o lasciarlo cadere vicino a sé, scelta, la seconda, che espone al rischio di eccessivo aumento della popolazione locale e di conseguente insufficienza di spazio e risorse. Perlopiù le piante, dunque, scelgono di spedire lontano il seme. Alcune alofite fanno qualcosa di anomalo e più salomonico: quando i loro semi sono maturi il baccello che li contiene si apre in due. Una metà cade vicino alla pianta madre seppellendosi nella sabbia, l’altra metà è proiettata verso il mare, se la portano il vento e le onde. Questi semi possiedono grandi doti di galleggiamento, vere e proprie capacità natatorie, possono stare per mesi in acqua(così si comporta ad esempio la noce di cocco) rimanendo vitali per poi attecchire su rive lontane anche migliaia di chilometri dal luogo in cui il loro viaggio è cominciato. In pratica le piante si comportano come nel dopoguerra le famiglie italiane con pochi mezzi e prole numerosa che spedivano un paio di figli a cercare fortuna oltre oceano e altri li tenevano vicini come sostegno.

In tema di piante giramondo, nelle scarpate ferroviarie, come ci finiscono? Lungo la litorale adriatica crescono papaveri gialli della California…

I papaveri producono una capsula secca che libera migliaia di semi che il vento fa rotolare via. Lo spostamento d’aria provocato dal passaggio dei treni offre loro un passaggio formidabile, è il propellente al volo dei semi che attecchiscono lungo le linee ferroviarie e possono arrivare anche molto lontano. E’ il caso del Senecio squalidus, originario delle pendici dell’Etna, e diventato residente nientemeno che ad Oxford, una pianta che ha trovato nel ghiaione delle linee ferrate qualcosa come un sentore di casa (cenere e sabbia dei vulcani). Viaggiando da nord a sud ha usato la sua capacità di adattamento ibridandosi con specie locali e riuscendo a sopportare clima e ambiente nordeuropeo. Molte piante, le autostoppiste del regno vegetale, affidano i semi a vettori animali in transito (a cui si attaccano in vario modo con spine, artigli e superfici adesive) o al loro apparato digerente: l’appetibilità e vistosità del seme di queste piante è da considerarsi come un’esca o meglio ancora un pagamento per il servizio di trasporto. Anche gli essere umani sono più o meno consapevoli veicoli di diffusione di semi: un esperimento fatto analizzando lo stuoino posto in un aeroporto trafficato, su cui ai viaggiatori era stato chiesto di passare le suole delle scarpe, ha portato a individuare – dopo mezza giornata di passaggi – centinaia di semi diversi. A dimostrazione che chi crede che si possano bloccare la biologia e la vita, beh, non ha proprio un’idea.

A inizio emergenza sanitaria ha paragonato la nostra condizione in tempi di lockdown a quella delle piante. Pensa che abbiamo imparato qualcosa?

Siamo stati bloccati, dunque fermi e costretti, esattamente come le piante, a prestare attenzione al nostro ambiente, cosa non scontata per molti, neanche per me. Siamo stati obbligati a capire come è fatta casa nostra, a prendere le misure. La percezione perfetta di quello che ci circonda la si ha solo stando fermi, abbiamo finalmente fatto conoscenza con il nostro spazio. Il secondo punto è stato fare i conti con le risorse, la quarantena è stata, specie all’inizio, una ricognizione continua di quanto a nostra disposizione, a partire della scorte alimentari. Quando gli spostamenti sono preclusi il primo problema è quello del nutrimento. Infine, la comunicazione. Non potendo muoverci è sorta l’esigenza di sentirsi di più e il picco dell’utilizzo della rete – come pure della radio – quasi direttamente proporzionale a quello delle curve epidemiologiche, lo ha dimostrato. In quanto all’aver fare tesoro di quello che si è appreso non sono ottimista, e non credo a certi proclami in voga. Niente sarà più come prima? Certo, perché sarà peggio. Ad esempio non ci sarà un ripensamento sulla questione ambientale.

Teme passi indietro?

Il green deal sarà accantonato per far fronte alla crisi economica, come se non fosse legata a quella ambientale; molti governi hanno già dichiarato che non ci sono soldi per la riconversione e le emergenze ambientaliste sono già etichettate come fisime di qualche snob di sinistra che fa l’orto. Non si tiene conto che il virus è stato un segnale, un buffetto sulla guancia che la Natura ha voluto darci ammonendoci. Alteriamo il suolo, gli ecosistemi e diamo impulso allo spillover, non è una novità: cinque anni fa Lancet ha pubblicato uno studio in cui si parla della triplicazione della zoonosi in trent’anni. Sono informazioni di cui disponevamo già; entro il 2050, un miliardo e mezzo di essere umani si troverà ad abitare in luoghi in cui la vita sarà impossibile. Per questo ogni politica seria dovrebbe avere come obbligo la messa a punto di strategie ambientali: ma l’orizzonte dei politici non va oltre la durata dei loro mandati.