La mano di Jay Gatsby s’allunga verso il raggio verde di un amore che non sarà mai suo.

È questa la prima immagine della 66esima edizione del festival di Cannes. L’immagine di una distanza che non sarà colmata. Nonostante tutto.

Ed è in e su questo anti-climax che il festival di apre. Un festival sulla carta che si presenta ricchissimo, dato questo che si verificherà nei prossimi giorni, ma che al tempo stesso sembra come già avvolto da una malinconia della fine.

Come se l’aria da festa non riuscisse a dissipare una strisciante sfiducia nell’apparato e nei discorsi del festival.

Un’impressione, come di un calo in atto. Proprio come le feste di Gatsby che non sono altro che messaggi in bottiglia per Daisy che vive dietro la luce verde, il festival si presenta al massimo del suo splendore, con tanto di Steven Spielberg in giuria, che in conferenza stampa parla di “celebrazione del cinema”, come a volere smentire coloro che invece, bastian contrari, continuano a nutrire dubbi su una macChina che continua a perseverare sulla rotta di un’ufficialità del cinema tutta di “sistema”.

E dunque la malinconia del festivaliero s’orienta verso percorsi laterali, anche se son sempre di meno, nel tentativo di pensare e praticare un altro cinema.

E il punto è questo.

Un altro cinema, nonostante Lav Diaz, sembra non esserci (più…) a Cannes. Si ragiona all’interno del cinema dato, che esiste e che si pratica.

Cosa questa confermata da un mercato del film dove le visioni in grado di scardinare il programma ufficiale sono ridotte al lumicino (nonostante The Canyons di Paul Schrader programmato al Palais I in contemporanea con l’apertura firmata Luhrman).

Una politica dei nomi, dunque, atta a scongiurare l’horror vacui che inevitabilmente coglie i fautori di un consumo d’immagini sempre più rapido e mentre s’attende il rivelarsi del programma cannense si guarda già a Venezia e persino oltre.

L’occhio del festivaliero come la mano di Gatsby teso verso una luce verde che forse non sarà (mai?) più anche un raggio verde.