Opera cupa, tragica, tutta calata nel clima oppressivo di un campo di lavori forzati in Siberia, all’epoca degli ultimi zar, Da una casa di morti di Leoš Janácek andrà in scena il 23 maggio al Teatro dell’Opera di Roma. È la sua ultima opera, allestita per la prima volta dopo la morte, a Brno, il 12 aprile 1930. Non era questa, tuttavia, l’opera che Janácek aveva composto: il manoscritto parve troppo nudo, troppo secco a Osvald Chlubna e a Bretislav Bakala, i quali pensarono di rimpolpare la strumentazione e di ammorbidire l’armonia. Operarono inoltre alcuni tagli. Oggi, però, abbiamo l’edizione critica di Charles Mackerras. L’orchestra di Janácek è molto particolare: passa improvvisamente da durezze estreme a dolcezze struggenti, ma l’andamento generale è aspro, tagliente, come il battito di un cuore in ansia. La percussione ossessiva, iterativa, come quella di un rituale pagano della vita, celebra la minaccia incombente di una catastrofe. Gli strumenti suonano in grandi fasce omofone, oppure si isolano in momenti rapidi, quasi inafferrabili, di canto spiegato. «In ogni creatura c’ è una scintilla divina»: questo il motto posto in alto, all’inizio della partitura.

È il grande credo dell’ateo Janácek, l’idea che instilla al pubblico in ogni suo lavoro teatrale. Come per il credente Dostoevskij, per il non credente Janácek l’uomo resta tale anche nella più profonda abiezione. La tortura, la sofferenza dell’anima rivelano il segreto per cui l’uomo è tale in quanto capace di dolore e di gioia, in una parola, di sentimenti. È quanto afferma anche Primo Levi in Se questo è un uomo: l’abbrutimento del Lager non riesce a distruggere la capacità di soffrire, è anzi proprio questa sofferenza a gridare contro l’oppressore la dignità di essere uomo. Janácek va ancora oltre: non solo l’ uomo, ma tutto ciò che vive è degno di rispetto, poiché gode e soffre. Un’intera opera di Janácek, La piccola volpe astuta, ha per personaggi gli animali, uno solo è un uomo ed è il malvagio che uccide. Ma anche in Kát’a Kabanová, in Jenufa, nell’Affare Makropulos è la vita dei personaggi a conferire all’azione teatrale quella forza, quell’intensità struggente, lancinante e inconfondibilmente slava che è la cifra del suo teatro. Non a caso le fonti dei libretti sono spesso russe: da Ostrovskij ha preso Kát’a Kabanová, dal romanzo omonimo di Dostoevskij ha musicato Da una casa di morti. L’aquila torturata dai prigionieri nel primo atto, nell’ultima scena del terzo prende il volo verso la libertà dei cieli, simbolo evidente del prevalere della vita sulla morte.

La vicenda non ha un percorso narrativo preciso, va dall’arrivo di un nuovo prigioniero, Gorjancikov, alla sua liberazione. Durante la sua permanenza nel bagno penale assiste a molte sventure, ascolta raccontare molte miserie, si affeziona come un padre al giovane Aljoja. I prigionieri, abbrutiti dalla vita, prima ancora che dalla prigionia, non perdono però del tutto la «scintilla divina» che li fa uomini. E si raccontano in monologhi che nessuno ascolta, ma che bruciano come ferite aperte. L’opera dura in tutto solo un’ora e mezzo, e in quel breve spazio di tempo si concentra una forza poetica insuperabile: il capolavoro prende alla gola lo spettatore e non lo molla più, fino alla fine; è la scansione della lingua ceca a permettere una tale violenza espressiva.

Come Monteverdi, Musorgskij, Debussy, Britten, Janácek compone con la musica del linguaggio. E la musica non si sovrappone alla lingua come un corpo estraneo, ma nasce da essa. Perciò il gesto teatrale acquista un’evidenza incancellabile, perché è il gesto della lingua, della comunicazione, come se la musica riandasse alle origini stesse del linguaggio, al momento in cui suono e parola sono la stessa cosa, in cui il suono si fa significato. Da qui la vertigine di scoprire l’essenza dello stare al mondo.