Il grande crac, ascesa e caduta degli dei
A teatro Luca Ronconi con «Lehman Trilogy» indaga su come una metodologia di capitalismo possa nascere, radicarsi senza opposizione e infine autoimplodere. Una saga antropologica sulla potente dynasty economica e finanziaria
A teatro Luca Ronconi con «Lehman Trilogy» indaga su come una metodologia di capitalismo possa nascere, radicarsi senza opposizione e infine autoimplodere. Una saga antropologica sulla potente dynasty economica e finanziaria
Luca Ronconi, veterano massimo e maggiormente illustre del nostro teatro, continua ad aprire nuovi tracciati visionari e nuove direttrici linguistiche di un’arte che si vorrebbe da parte di qualcuno «antiquata» o almeno «spiazzata» rispetto ai tentativi di rinnovamento del suo linguaggio. Con il suo nuovo spettacolo, monumentale nella sostanza e di scarna eleganza nella figurazione, il regista conferma quanto sia possibile affrontare nodi essenziali della nostra civiltà e convivenza, partendo da un testo, di Stefano Massini, che racconta con semplici dati storici riportati in sequenza e ottenuti da pubbliche fonti documentarie, la storia della famiglia che arrivò a creare una delle massime potenze economiche e finanziarie dei nostri tempi, per poi fallire, nel 2008, quasi vittima della sue stessa, arrogante, spericolatezza.
Lehman Trilogy è quindi la storia di quella famiglia di immigrati ebrei dalla Germania in America nell’800, che lavorò così meticolosamente alle proprie fortune, da passare dalla semplice accumulazione capitalistica di materie prime alla grande produzione di manufatti, e in qualche modo, se non li inventò, giocò con fortuna alla moltiplicazione dei titoli e del loro valore, condizionando con quei capitali (ottenuti magari da ignari risparmiatori, anche piccoli e piccolissimi) la costruzione delle più faraoniche infrastrutture americane: come le grandi reti ferroviarie da un oceano all’altro, o il taglio dell’istmo di Panama, il cui canale mette in comunicazione il Pacifico con i Caraibi atlantici (ovviamente a pagamento). Decidendo quindi di chiudersi (con una sola eccezione familiare di livello, che si trasferì in politica e poi a fianco del New Deal roosveltiano) nella assoluta autoreferenzialità della finanza, capace di rigenerarsi dalla crisi del ’29, e poi crescere di importanza fino a influenzare, governare e addirittura «giudicare» i destini del pianeta, prima di tracollare sotto la carta straccia dei titoli tossici che essa stessa aveva inventato e disseminato dappertutto.
Alla Lehman Brothers Stefano Massini ha applicato la sua nota curiosità, la sua capacità di trarre narrazione dalle cronache e dagli archivi, il suo insaziabile metodo indagativo verso gli aspetti contraddittori della modernità, come aveva fatto, solo per citare qualche esempio, sugli orrori antisemiti del nazismo, sulle guerre delle nazioni balcaniche, sugli abusi neocapitalistici in fabbrica, sul caso Politkovskaja o sull’assassinio di Ilaria Alpi. Una evidente passione civile la sua, che gli permette di disporre materiali informativi pronti a farsi drammaturgia. Come questi la cui sfida ha raccolto ora Ronconi, portando in scena ben due spettacoli dalla Lehman Trilogy (al Piccolo Teatro Grassi di via Rovello, le due parti vengono presentate a settimane alterne, con un paio di maratone nei fine settimana, fino al 15 marzo). Il testo è stato pubblicato di recente in Italia da Einaudi, dopo esser già andato in scena a Parigi.
Il regista da parte sua da diversi anni ha scelto l’economia e la finanza come tema privilegiato di indagine, o come lui ama dire di «conoscenza» attraverso il teatro. Dalle teorie estremizzate fino al paradosso di Infinities alla Bellezza del diavolo commissionata appositamente a Giorgio Ruffolo, dai finanzieri allegri di Hermann Brock alla Company degli uomini di Edward Bond sull’orlo del crimine, alla spietata lettura della Santa Giovanna dei macelli brechtiana: Ronconi si è potuto permettere in questi anni dei capitoli fondamentali di un trattato teatrale sull’economia e le sue cascate, che trova in questo affresco sui Lehman la sua esplicitazione e il suo apice. Nelle cinque ore circa delle due parti, la saga antropologica, religiosa, morale e mondana di questa famiglia scorre e dilaga, riempiendo ed esaudendo qualsiasi possibile curiosità su come una metodologia del capitalismo possa nascere, radicarsi e svilupparsi all’infinito, sconfiggendo ogni opposizione, anzi annettendosi e recuperando ogni contraddizione, senza possibile termine se non nell’implosione autodistruttiva.
Tutto questo svilupparsi di processi e reazioni vive su una scena (firmata da Marco Rossi) spoglia: solo qualche praticabile e qualche sedia che si alzano o vengono inghiottiti dal pavimento, mentre una sbarra si abbassa a mezz’aria dal soffitto per le evoluzioni del grande equilibrista. E si aprono via via le diverse intestazioni della «ditta» Lehman. Minaccioso, quasi ineluttabile, pende un orologio che darà per tutto il tempo la stessa ora. In quell’orizzonte, che ci porta dall’arrivo migrante al porto di New York fino al cuore più segreto di Wall Street facendo il periplo degli States , propellente e sangue sono gli attori. Un gruppo straordinario di interpreti, alcuni che con Ronconi hanno dato le più importanti prove, come Massimo Popolizio e Massimo De Francovich, e la new entry di Fabrizio Gifuni. Sono loro i fratelli capostipiti: ognuno con un personale registro che ne scopre la diversità di carattere, e quindi di ruolo. Il loro erede diretto è un altrettanto straordinario Paolo Pierobon.
Se il testo di Massini è in versi sciolti, senza le battute dei personaggi, ognuno di loro lega quelle parole col proprio tono, in una perfetta armonia acustica. Una «litania» che non è né ebraica né cristiana, ma semplicemente quella ineludibile del capitale: An other day, an other dollar… Popolizio e De Francovich erano stati i finanzieri inattendibili di Brock in Inventato di sana pianta: qui di inventato non c’è niente, se non il ritmo narrativo che rende quell’espansione economica tanto avvincente quanto innaturale. E a proposito dell’ebraismo, che viene sottolineato nel testo e sulla scena con la citazione scritta di tutte le feste e le ricorrenze, è un utile raccordo narrativo, anche se rischia di addossare a una sola religione la patologica genia dell’accumulazione. Ma sulla scena, oltre ai quattro protagonisti, ci sono molti altri personaggi (e interpreti) di ruolo e di generazioni successive, tutti vestiti da Gianluca Sbicca con tute da lavoro sopra giacca e cravatta da manager. A sfoggiare abiti è la quasi isolata presenza femminile di Francesca Ciocchetti, che si fa carico delle molte successive mogli di un Lehman successivo. È un album senza fine, da sfogliare e meditare, questa Lehman Trilogy, per capire e svelare almeno alcune delle assurdità che ci confondono e ci governano.
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