Visioni

«Il Grande Carro», una costellazione di esistenze

«Il Grande Carro», una costellazione di esistenzeUna scena da «Il Grande Carro» di Philippe Garrel

Al cinema In sala il nuovo film di Philippe Garrel, storia di una famiglia di burattinai, nel cast i suoi tre figli. Il regista è al centro di polemiche in Francia, dopo l’inchiesta di «Mediapart»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 14 settembre 2023

Orso d’argento alla scorsa Berlinale, Le Grand Chariot arriva oggi nelle sale italiane mentre in Francia il suo autore, Philippe Garrel, è al centro di numerose polemiche dopo le accuse mossegli da attrici come Clotilde Hesme (protagonista del suo Les amants reguliers, 2005) e Anna Mouglalis (La Jalousie, 2013) e da numerose sue ex-allieve al Conservatorio d’arte drammatica di molestie e aggressioni sessuali in cambio di un ruolo. A far esplodere la vicenda che leggendo le testimonianze – alcune delle quali anonime – si è ripetuta nei decenni è stata a fine agosto un’inchiesta del sito «Mediapart». Da parte sua Garrel si è scusato dicendo anche di non avere compreso allora il peso delle sue azioni e di averne soltanto ora preso coscienza – «Leggendo queste testimonianze ho capito la differenza che c’era tra ciò che immaginavo io e quello che invece ho fatto vivere e subire a tutte loro».

IN FRANCIA dove Le Grand Chariot è uscito ieri, il quotidiano «Liberation» ha scritto esplicitamente di avere mutato prospettiva sul film – e sull’opera in generale del regista a causa di questa vicenda. La questione è complessa: è senza dubbio molto brutto che un autore amato come Garrel abbia esercitato un ripetuto abuso di potere nella peggiore «consuetudine» dell’industria cinematografica. E forse fa effetto ancora di più perché Garrel parla sempre (un po’) di sé, i suoi film sin dagli inizi hanno come materia il vissuto dell’artista, e non potrebbe essere altrimenti di fronte a scelte politiche e esistenziali che questo fare cinema investe direttamente. Al tempo stesso si può depennare un film – o una intera opera – nel segno del comportamento del suo autore? Non è altrettanto ingiusto? Perché poi quanto vediamo sullo schermo compresi i suoi alter ego film dopo film, non è una semplice traduzione della sua esistenza. Ogni cosa vi rinasce, si trasfigura negli attori, nei personaggi, quei frammenti di vissuto si schiudono nella distanza della narrazione verso altre esistenze, guardano verso altre «cicatrici interiori» creando qualcosa di ancora diverso.

Cosa racconta Le Grand Chariot, in italiano Il Grande Carro – titolo che evoca la costellazione celeste? Di una famiglia di burattinai, il padre, la nonna, i tre figli – che sono i figli di Garrel, Louis, Esther, Lena, tutti attori – lavorano e vivono insieme come le famiglie teatrali di un tempo, preservando una dimensione «artigianale» che è quanto il padre (Aurelien Recoing) ha voluto insegnare loro. Fuori dal piccolo teatro c’è la vita di ogni giorno a casa, le chiacchierate, le confidenze, i ricordi della nonna, le battaglie politiche di Lena, le ambizioni di Louis che vuole essere attore, i silenzi di Martha la più legata alla tradizione famigliare, i giochi, la presenza discreta del padre. E poi c’è un artista che dà loro una mano (Damien Mongin), aspetta un figlio ma si innamora di un’altra ragazza giovane, vorrebbe solo dipingere però la sua arte non trova sbocco e lui crollerà.

Un film «famigliare» dunque questo nel quale Garrel (che lo ha scritto insieme a Arlette Langman, Jean-Claude Carrière, Caroline Deruas Peano – riunisce per la prima volta i suoi figli, e dove l’autobiografia si mescola ancora una volta a infinite altre suggestioni con leggerezza, in un narrare di epifanie improvvise, luci e dettagli cromatici di estrema cura – alla fotografia c’è la genialità di Renato Berta. Si parla di lutti, di perdite, di amore, amicizia, scelte, responsabilità. Delle eredità che passano tra le generazioni e del bisogno di seguire i propri desideri. Dell’ostinazione e del dolore di non riuscire a trovare una strada per la propria arte o di quanto può essere alto il prezzo dei rifiuti ricevuti dal sistema di una industria.
Il piccolo teatro dei burattini dove i bambini ridono a quelle vicende lontane, forse le stesse che facevano divertire le mamme e i papà, somiglia a un luogo fuori dal tempo, in cui la ritualità che tramanda sapienza e personaggi di scena, la precisione dei gesti che sono quasi una danza e la dolcezza del sorriso fa parte dei suoi protagonisti.

UN EVENTO improvviso costringe la famiglia a ripensare al proprio lavoro, e perciò alla propria vita:ma che cosa significa lasciarsi alle spalle l’infanzia e le abitudini di sempre? È in questa capacità la trasmissione dei saperi o nel ripetere sempre ciò che è stato?
Garrel riesce a cogliere più che altrove l’istante, la fisicità dei suoi personaggi, filmati da vicino nei primissimi piani è quanto ce li svela poco a poco. Sono le loro emozioni, i dubbi, l’irruenza, la determinazione, di ogni gesto che narra, dichiara, rende storia nello spazio dell’inquadratura. E qui, nella casa che è quasi come un teatro, o il prolungamento di esso, che contiene i loro vissuti e quindi una materia preziosa, Garrel li segue, li tratteggia, ne cattura i sentimenti più segreti. Intreccia la memoria al presente: la nonna che ricorda i suoi rifiuta alla religione – e ha persino deciso di de-battezzarsi – e la nipote, Lena, femminista Femen che si fa arrestare.

C’è una magnifica libertà in questo film, che commuove anche per l’ostinazione della ricerca di una forma con cui interrogarsi sulla vita. Lo fa con delicatezza, in modo quasi impercettibile, senza fragori né dichiarazioni di intenti, con uno stile solo in apparenza «lineare», che non ha bisogno di trucchi o di esibizioni perché la sua potenza e il suo incanto sono nel gesto del filmare del suo autore. Che lì ricompone le tensioni cercando tra le fratture la precarietà delle relazioni, la trasmissione della conoscenza, quella unicità delle scelte di ciascuno che si fanno segno di una resistenza.

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