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«Il global distrugge il pecorino»

Intervista Intervista a Daniele de Michele, don Pasta, economista e dj-gastronomo: «I pastori sardi stritolati dai monopolisti del commercio, i regolamenti hanno distrutto l’economia familiare»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 7 marzo 2019

«I dolori della Sardegna» è un articolo di Antonio Gramsci del 1919 pubblicato su L’Avanti e poi censurato. Scrive Gramsci: «I signori Castelli vengono dal Lazio nel 1890, molti altri li seguono arrivando dal Napoletano e dalla Toscana. Il meccanismo dello sfruttamento è semplice: al pastore che, privo di potere contrattuale, deve fare i conti con chi gli affitta il pascolo e con l’esattore, l’industriale che presta i soldi per l’affitto del pascolo, in cambio di una quantità di latte il cui prezzo a litro è fissato vessatoriamente dallo stesso industriale… A un popolo in ginocchio anche questi pochi soldi paiono la salvezza».

Un meccanismo che ricorda quello che subiscono i pastori sardi, che però non vogliono stare in ginocchio e lottano per ottenere compensi più dignitosi per ciò che producono. Ma chi sono oggi «i spogliatori»? Di questo e molto altro abbiamo parlato con Daniele de Michele, ai più conosciuto come Don Pasta, dj, economista, appassionato di gastronomia, considerato dal New York Times «uno dei più inventivi attivisti del cibo».

Daniele, chi sono oggi «i spogliatori»?

I veri spogliatori, oggi, sono le strategie commerciali, se metti un intero settore in mano ad un unico produttore legato a mercati internazionali è chiaro che i prezzi vengono decisi da quel mercato. Ai danesi, per esempio, cosa dovrebbe interessare della tutela del pecorino romano (o sardo, in questo incredibile paradosso storico)? Non si può accusare il monopolista, al di là delle strategie becere, di fare il monopolista, se ci si affida a lui sappiamo che giocherà al ribasso, come tutti i giganti è uno strozzino, bisogna togliergli l’arma e restituire ai pastori potere decisionale e contrattuale.

Potere decisionale e contrattuale sono condizionati da un sistema economico ampio, globale.

L’economia attuale è un’economia in cui, a causa della globalizzazione e delle ragioni commerciali, le piccole e piccolissime produzioni, che costituiscono la base dell’alimentazione italiana, si sono ritrovate isolate e in ginocchio. Nel caso del settore caseario le normative vietano di fare del formaggio con il proprio latte e venderlo se non si ha un laboratorio che risponde a determinati, tanti e costosi requisiti; ieri non funzionava così, ogni famiglia sviluppava la sua economia domestica in modo sommerso, nulla a che vedere con l’evasione ma un concetto più vicino a quello del baratto. Questo permetteva la sopravvivenza e la costruzione di un’economia familiare: si produceva in piccolo, vendendo l’eccedente rispetto al fabbisogno familiare.

Un sistema che sembra sparito. Perché?

Tutte queste realtà si sono disintegrate quando le regolamentazioni sono diventate più stringenti, le economie troppo piccole hanno cominciato a dipendere sempre più dai grandi distributori esterni, la piccola filiera agroalimentare si è ritrovata in balia di acquisti che riguardano mediamente la medio grande produzione. Far entrare la giga-distribuzione nel circuito della produzione piccolissima ha significato la distruzione dell’intero asse produttivo italiano. Pensare di concentrare e di far crescere la produzione dell’olio, dell’uva, del grano, aumentando la percentuale di possedimenti pro-capite, è assurdo nonché anti-democratico e anti-identitario. Per fare la qualità e l’eccellenza di cui tanti si riempiono la bocca, bisognerebbe ricostruire le norme e il commercio a partire dalla specificità, e sostenere il più possibile le piccolissime produzioni, senza il supporto dello Stato crollano a effetto domino tutte le economie locali, se non sostieni i pastori, i pastori crollano, si smembrano i territori, perdere i pastori significa perdere redditi, presidi dei territori, significa smottamenti, boschi abbandonati, dissesti.

Tutto questo discorso si riferisce solo al settore caseario?

No, riguarda la totalità dei prodotti universali: grano, pomodori, latte. Se lo Stato italiano si affida solamente alla grande distribuzione e al mercato delle eccellenze e non mette nelle condizioni di far mangiare bene i 60 milioni di persone che dovrebbe rappresentare, ci si ritrova costretti ad andare al discount, se sostieni i produttori e dai la possibilità di abbassare i prezzi il popolo potrà permettersi di cambiare i modelli di consumo e potrà ricominciare a mangiare bene (e noi lo sappiamo fare).

Quella dei pastori sardi è una storia lunga: nel 2003, in 5 mila sfilano a Cagliari per denunciare l’impatto della campagna di vaccinazione per la lingua blu della Regione; nel 2004, in 2 mila bloccano la statale 131; nel 2005, un nuovo blocco contro la proposta degli industriali di portare il costo del latte a 51 centesimi al litro; nel 2010 proteste in Costa Smeralda e a Cagliari, dove i pastori vengono caricati dalla polizia e un pastore perde un occhio. Nel 2017 – la peggiore annata degli ultimi 35 anni – 9 manifestazioni di protesta a Cagliari. Abbiamo uno sguardo troppo corto, miope?

Io sono andato 4 anni fa e la situazione era già questa e nessuno se n’è interessato minimamente. Parlavano di eccellenze, senza pensare ai sardi e alla loro cultura. Inutile andare a parlare della macroeconomia del pecorino e del latte di pecora e capra in Sardegna senza occuparsi di cosa riesce a mangiare la gente comune. Il problema non sono le eccellenze, il problema è come mangiare bene con pochi soldi, il punto è fare tutto il possibile affinché il popolo produca e possa vendere – e comprare – a poco i prodotti nel rispetto delle regole etiche. Oggi si parla molto di identità e sovranismo, questi (i rappresentanti del governo giallo-verde, ndr) sono andati dove nessuno era andato più, l’ultimo intellettuale di riferimento che è andato in Sardegna è stato De Seta, parliamo di 60 anni fa, con i suoi Pastori di Orgosolo. I sardi parlano di formaggio e mangiano formaggio continuamente, non si può scindere una società dalla propria storia, se in Sardegna hanno fatto sempre, con nozione di causa, il formaggio vuol dire che lo sanno fare, vuol dire che sanno che in quei territori le pecore stanno bene e che il latte viene bene con quel foraggio, non si può pensare di creare a tavolino le specificità territoriali, l’identificazione dell’uomo con i prodotti e le bestie è legata a processi storici lunghissimi, quindi entrare a gamba tesa, senza nozione di questa storia, nell’economia sarda riducendola semplicemente a un problema di distribuzione significa distruggere un pensiero e una cultura, significa che arriva il Salvini di turno che sostiene con milioni di euro le quote latte e con due bruscolini pensa di convincere che è dalla parte giusta, perché nessun altro se ne è occupato.

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