Visioni

Il glamour in bianco e nero della Tigre

Il glamour in bianco e nero della TigreMina 2001 – foto Mauro Balletti

Stile Mina come icona della moda inconsapevole fra i sessanta e i settanta

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 31 luglio 2013

Mentre cantava, alzava le braccia in alto, le muoveva come ali facendole ondeggiare aggraziate. Un’aquila migratrice si sarebbe detto, se non fosse che era già conosciuta come «la tigre». Poi portava giù le braccia facendole guidare dal peso delle mani affilate e con un gesto misterioso chiudeva il pollice e l’indice formando due occhielli, pronti a staccarsi e ricomporsi seguendo l’ondeggiare dei sentimenti che dirompevano dalle parole delle canzoni. Se non ci fosse altro, basterebbe questo per dire quanto Mina avesse in sé un’espressione di glamour, qualità rarissima nella televisione italiana degli Anni 60 e 70 per non parlare di quella dei più recenti vent’anni.

Quanta incosapevolezza ci fosse in quei gesti delle braccia, ma anche nell’ancheggiamento tanto misurato che sembrava studiato, lo spiega il fatto che molto più tardi, negli anni 80, a New York apriranno numerose scuole di Voguing, il ballo che ripeteva con armonia meccanica le movenze delle indossatrici sulle passerelle, nell’era in cui alle modelle (Iman, Pat Cleveland, Alma, Marpessa) era richiesta l’interpretazione dell’abito, secondo la lezione dell’impagabile couturier-coreografo-fotografo ex ballerino Thierry Mugler. Alla luce di quell’esplosione, Mina si rivela l’istinto che si fa talento, modello insospettabile di un glamour-de-vie che viene dall’intuizione in un’Italia che definire Italietta è già un complimento. Ma la Rai, dove Mina regnava, all’epoca era un’industria culturale e, anche lì forse intuitivamente, si faceva propria la lezione dell’Hollywood in bianco e nero dove le dive vestite dai costumisti supplivano alla mancanza di genio della moda americana. Mina, dallo schermo della tv oggi recuperato da YouTube, appariva elegante, con quegli abiti sottoveste lunghi e fluidi che percorrevano la figura magra ma sinuosa, gli abiti di metallo di – o alla maniera di – Paco Rabanne, le petite robe noir (i tubini neri) che si allungavano fino a diventare abiti da sera. E Mina si presentava agli spettatori sempre comme-il-faut, vestita con gli abiti da sera perché all’epoca l’educazione passava anche per la rappresentazione di sé e in casa degli altri, anche se invitati attraverso l’accensione di un pulsante di un elettrodomestico, ci si doveva presentare ben vestiti.

Non credo, non risulta, che Mina si servisse dei couturier e dei sarti dell’epoca per il guardaroba di Canzonissima o di Studio Uno. Più facile che costumisti come Corrado Colabucci si affidassero alla lezione di Adrian (Gilbert Adrian), il costumista delle dive di Hollywood, per ripetere su questo elemento dell’immaginario italiano che è Mina le sperimentazioni di colui che disegnando costumi per il cinema ha anche inventato la moda americana aveva fatto su Greta Garbo, Barbara Stanwyck e soprattutto su Joan Crawford. Sarà per questo che l’immagine di Mina passa dal maglione a collo alto della moda esistenzialista alla Juliette Greco dei primi Anni 60 a quella successiva più glamorous alla Barbra Streisand, la diva americana diventata immediatamente icona di stile internazionale dopo la sua esibizione nel 1960 in un bar gay del Greenwich Village di Manhattan e già vedette amatissima per il Funny Girl di Broadway (1964), di cui in un certo senso la nostra italianissima voce miracolosa adotta lo stile e le due fasce di pubblico di riferimento, i gay da una parte e le famiglie popolari dall’altra, uniti nella glorificazione della sua voce e della sua immagine.
E avevano ragione: all’epoca la televisione costruiva dive che non approfittavano dei prestiti dei vestiti degli stilisti di moda, non avevano un tariffario che corrispondeva al numero di apparizioni con un abito firmato, si affidavano alla bravura dei costumisti e mettevano in gioco le loro doti naturali, il loro istinto, le loro intuizioni, le loro elaborazioni di modelli arrivati dall’estero per costruire un immaginario che oggi appare ingenuo ma che se non fosse stato bloccato avrebbe potuto diventare la strada italiana al glamour. Lo sa bene Valentino che nella moda rappresenta la versione italiana del glamour francese e che, inconsapevole come chi lo adottava, sembra essere il maggiore ispiratore dello stile di Mina. E poi la banda passò, Mina si ritirò, alla tv arrivarono le scosciature e quegli occhi truccati con l’eyeliner tracciato a matita sono rimasti icona di un tempo-moda televisivo irrecuperabile.

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