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«Il giuramento di Pamfir», nel segno dei conflitti

«Il giuramento di Pamfir», nel segno dei conflittiUna scena da «Il giuramento di Pamfir»

Cinema Nelle sale l'opera prima di Sukholytkyy-Sobchuk

Pubblicato circa un anno faEdizione del 12 agosto 2023

Pamfir, opera prima di Dmytro Sukholytkyy-Sobchuk aveva esordito lo scorso anno alla Quinzaine di Cannes, il regista trentottenne, studi di architettura e di filosofia prima del cinema era stato «sorpreso»dall’invasione russa al montaggio anche se come ci aveva raccontato quel conflitto era già lì da tempo, almeno dal 2014 «quando i russi hanno inviato i reparti speciali nel Donbass. Non è mai finito, non c’è stata nessuna pace da parte dei separatisti che hanno continuato a tenere nel mirino Mariupol, Kherson». Uscito ora nelle nostre sale estive col titolo Il giuramento di Pamfir merita una visione sia per l’energia cinematografica non scontata in un esordio sia appunto per la capacità di mettere a fuoco una questione quale la guerra in Ucraina che è ora (e purtroppo) parte del nostro tempo.

PAMFIR è la storia di un ritorno, il protagonista il cui nome dà titolo al film rientra al suo villaggio in una zona rurale sul confine con la Romania – è la regione di Cernivci – dove vivono la moglie e il figlio, i suoi genitori e il fratello minore. Lui è emigrato in Polonia per lavorare – si guadagna molto di più – e soprattutto per sottrarsi a un passato nel contrabbando, attività che lì coinvolge un po’ tutti perché è il solo mezzo di guadagno.

Il regista mette a fuoco la questione ucraina prima dello scoppio della guerra

Presto ci sarà il carnevale con la Malanka, una festa tradizionale nella quale ogni uomo indossa un costume e una maschera, la moglie devotissima si è fatta promettere che lui non farà più contrabbando, però accade qualcosa e Pamfir finisce di nuovo intrappolato in quelle «regole» di violenza che dominano tra mafia, polizia compiacente, una chiesa opaca. Eroe tragico l’uomo (Oleksandr Yatsentyuk) lotterà per una «liberazione» che prima di lui riguarda le giovani generazioni come suo figlio, e per un futuro oltre confine, verso l’Europa, desiderio «sintonizzato» con le richieste del Paese già prima della guerra.

DI CUI anche se scritto in precedenza il film porta in sé i segni nei conflitti del protagonista e in quelli di una realtà collettiva dominata da un boss che la controlla, che la condanna miseria e corruzione. È proprio questa violenza taciuta, «rimossa» eppure così devastante nelle vite quotidiane che Sukholytkyy-Sobchuk illumina con precisione senza cedere a schematismi o a esibizione superflue di stile ma rimanendo su quella frontiera del reale che si fa all’improvviso teatro ostile e selvaggio.
Una questione di luce, di prospettive, di profondità di campo che il regista mette alla prova fra dettagli umani (un regolamento di conti in macchina, gesti colti da una finestra, dei bambini che passano in strada) alternati abilmente e lo sguardo sulla natura di boschi e di nebbie per cogliere un orrore che sorprende il suo stesso manifestarsi.

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