IL GIUBBOTTO AL CINEMA
Il culto del giubbotto di pelle nasce al cinema. E’ il 1953 ed esce “Il selvaggio”, ovvero Marlon Brando fasciato di cuoio Schott-Perfecto (il giubbotto) in versione ribelle ai modelli della società di provincia americana. Nel film di Laszlo Benedek l’attore è testimonial anche del blue jeans, già calzone da fatica, e della motocicletta Triumph, autentica protagonista della pellicola. In realtà, sia i due capi d’abbigliamento sia la moto si trovavano sul mercato da un pezzo. Ma è nel vederli concentrati in Brando che si raggiunge la loro consacrazione: del giovanotto, che passa da attore a divo; degli oggetti, che diverranno dei feticci nel secondo ’900 e oltre. Invero, non sono stati i perdigiorno delle bande in motocicletta, avvolti da cerniere lampo, a farci scoprire i giubbotti. Il nostro riferimento invece, essendo cresciuti nelle platee dove predominava la filmografia di guerra, erano gli aviatori d’oltreoceano con le divise di volo in cuoio di cavallo; erano quei fascinosi giubbotti consunti e scoloriti per le ore passate negli aerei coi quali si compivano le incursioni sulle città europee fra il ’43 e il ’45.
Semplicemente da cineteca l’accoppiata giubbotto A2 – moto Triumph (il nostro è Steve McQueen) ne “La grande fuga”, dieci anni dopo “Il selvaggio”. Andare in giro con un classico del vestiario in pellame come l’A2, che il prigioniero di guerra McQueen teneva appiccicato addosso, è uno stile di vita inveterato in ogni cultore del giubbotto. Un gradito assortimento di questo ce l’offrì l’equipaggio del “Memphis Belle”, bombardiere B-17 e titolo di un film del 1990. Con Mattew Modine nelle vesti di capitano-pilota (il marine-giornalista del famoso “Full metal jacket”, per ricordare meglio l’attore), dieci aviatori immersi nei loro giubbottoni, nell’ultima spericolata missione, riescono a portare a terra la fortezza volante ridotta a un colabrodo. Qualche anno prima, nel 1987, Steven Spielberg aveva girato “L’impero del sole”. La storia del personaggio dell’allora tredicenne Christian Bale emozionò pubblico e critica. Finito in un campo di prigionia, durante l’occupazione di Shangai, si ritrova fra le grinfie di uno spietato carceriere giapponese e i raggiri di un cinico avventuriero americano, impersonato quest’ultimo da John Malkovich. Da incorniciare la scena del ragazzo nell’acquitrino. Il pesante giubbotto da adulto, che gli cascava dalle spalle esili nascondendolo alla vista del sottufficiale aguzzino, rientra anch’esso nella cultura degli indumenti in cuoio.
Riandiamo all’anno 1953, da cui si è partiti. Un maestro del cinema qual è stato Billy Wilder realizza “Stalag 17”, un film che riassume i temi, cari al regista, della commedia e del dramma, calati nel contesto di un campo di concentramento nazista della seconda guerra mondiale. L’eroe in chiaroscuro della vicenda, in giubbotto d’aviatore con collo di pelliccia, è William Holden all’apice delle proprie capacità interpretative, riconosciutegli peraltro dall’assegnazione del premio Oscar per quel ruolo. La suggestione dei giubbotti di cuoio, che ancora avvertiamo, probabilmente risale a quella figura, benché trafficona e priva di morale, che risolve con acume un “giallo” di guerra per salvare pellaccia e pelliccia.