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Il giorno in cui Roosevelt s’insediò

Il giorno in cui Roosevelt s’insediòEleanor e Franklin D. Roosvelt – wikicommons

Memoria necessaria In quasi tutti gli Stati era stata dichiarata una chiusura a tempo indefinito delle banche, colpite da un’ondata di fallimenti che spingevano i risparmiatori a ritirare i soldi

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 20 gennaio 2021

«The only thing we have to fear is fear itself…», «l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa, il terrore sconosciuto, immotivato e ingiustificato che paralizza. Dobbiamo sforzarci di trasformare una ritirata in un’avanzata». Con queste parole, pronunciate in apertura del discorso inaugurale a Capitol Hill il 4 marzo 1933, Franklin Delano Roosevelt dava avvio al primo dei suoi quattro mandati alla presidenza degli Stati Uniti dopo il responso delle urne che l’8 novembre del 1932 aveva riportato i democratici alla Casa Bianca. A ispirarle era stato il lungo viaggio elettorale attraverso la nazione, in parte affiancato dalla first lady, Eleanor, «eyes and ears», occhi e orecchie, del presidente. Esaltato dalla vitalità di una popolazione che attraversava una spaventosa crisi economica in un paese devastato, Franklin tornò convinto che la Depressione potesse essere sconfitta.

Ciò che vedeva dai finestrini del treno – erosione del suolo, miseria dei raccolti e povertà nei villaggi rurali, stato di abbandono di periferie cittadine e strutture pubbliche – costituiva una solida base per i suoi piani d’azione e da tale fiducia sarebbero scaturite quelle parole. Fu l’ultima volta in cui la cerimonia per l’insediamento del presidente si svolse dopo quattro mesi dal giorno dell’elezione. Un interregno troppo lungo, soprattutto nella fase della crisi innescata dal crollo della Borsa di New York del 1929 e da emergenze climatiche quali la Dust Bowl e la siccità che riarse le regioni agrarie delle Grandi Pianure: un quarto della forza lavoro del paese non aveva un’occupazione; i prezzi dei prodotti agricoli erano calati del 60%, gettando sul lastrico migliaia di agricoltori; la produzione industriale era scesa di oltre la metà e non si contavano le famiglie rimaste senza casa.

Il giorno in cui Roosevelt s’insediò, in quasi tutti gli Stati era stata dichiarata una chiusura a tempo indefinito delle banche, colpite da un’ondata di fallimenti che spingevano i risparmiatori a ritirare i soldi. Fu lui stesso a proporre l’anticipo della celebrazione al mezzogiorno del 20 gennaio mediante il XX emendamento della Costituzione, ratificato dal Congresso, dopo aver lanciato il grande ciclo di riforme per arginare la Grande Depressione.

Conosciuto come «New Deal» e annunciato a Chicago il 2 luglio del 1932 nel vigoroso e drammatico discorso di accettazione della candidatura, il piano prese corpo a partire dai primi cento giorni della nuova amministrazione, quando il Congresso fu sommerso da progetti di legge, esortazioni e indirizzi presidenziali con l’obiettivo di rimettere in moto il Paese. Il «nuovo corso», solennemente promesso in campagna elettorale, fu attuato nel corso dei primi due mandati, fino all’ingresso della nazione nel secondo conflitto mondiale e all’avvento dell’economia di guerra, mediante immani opere pubbliche infrastrutturali e civili, assegnazione massiccia di sussidi a fronte di impieghi in corpi statali, costituzione di agenzie governative ed emanazione di leggi per la ripresa economica e la protezione sociale. Ma se le leggi adottate in attuazione delle politiche liberali e delle misure sociali del New Deal sposate da Roosevelt erano considerate «must» – per usare le parole del presidente -, non fu così per la legislazione necessaria a porre fine alla macchia indelebile nella storia degli Stati Uniti: la pratica dei linciaggi verso gli afroamericani, tuttora in vigore e attuata prevalentemente da folle o gruppi di bianchi in preda all’odio tramite impiccagione.

Malgrado le pressioni dei più importanti attivisti per i diritti civili e della stessa first lady, Franklin Delano non si pronunciò mai a favore di una legge federale che andasse in questa direzione, nel timore di perdere voti al Senato tra i suprematisti bianchi del Sud presenti anche nel suo partito. Il Congresso nella prima metà del XX° secolo esaminò circa 200 disegni di legge in materia, senza approvarne nessuno. Nel 1939, la voce di Billie Holiday in Strange fruit rese nota al mondo la cruda realtà di questa pratica: «Southern trees bear strange fruit | Blood on the leaves and blood at the root | Black bodies swinging in the southern breeze | Strange fruit hanging from the poplar trees. | Pastoral scene of the gallant south» («Gli alberi al sud danno strani frutti | sangue sulle foglie, sangue alle radici | Neri corpi dondolano alla brezza del sud | Strani frutti pendono dai pioppi»).

Il linciaggio è stato riconosciuto dal Senato come crimine a livello federale solo nel 2019, con l’approvazione all’unanimità del Justice for Victims of Lynching Act of 2019, presentato dalla senatrice democratica e attuale vice-presidente Kamala Harris, seguita nel 2020 dal passaggio alla Camera, a larghissima maggioranza, dello stesso disegno di legge, approvato con il titolo emendato Emmett Till Antilynching Act.

I due testi vanno armonizzati in un’unica legislazione per poter andare alla firma allo Studio Ovale ed entrare del Codice degli Stati Uniti. Ma tentativi di ostruzionismo sono sempre in agguato, come quello di un senatore repubblicano il 4/6/ 2020, denunciato in aula da Harris. Era un giorno di lutto: si svolgeva a Minneapolis la prima cerimonia funebre per George Floyd, soffocato dalla pressione del ginocchio di un poliziotto il 25 maggio, mentre nel mondo crescevano le proteste del movimento Black Lives Matter guidate dallo slogan «I can’t breathe» («Io non respiro»).

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