L’inizio ufficiale è fissato per le dieci di questa mattina. A quell’ora, nella sala del Bronzino al Quirinale, per la prima volta un presidente della Repubblica in carica sarà ascoltato come teste in un processo. E non si tratta certo di un processo qualunque, ma quello che si sta svolgendo da due anni a Palermo sulla trattativa intercorsa tra lo Stato e Cosa nostra per mettere fine alle stragi mafiose dei primi anni ’90.

Sarà un’udienza blindata per volontà dello stesso Giorgio Napolitano che, salvo sorprese dell’ultimo minuto, ha impedito la possibilitàper i giornalisti di assistere alla sua deposizione anche a distanza e ha vietato l’ingresso nella sala di cellulari, tablet, computer e qualunque altro strumento utile alle registrazioni. L’udienza sarà ripresa da un tecnico del Quirinale (e non della procura come avviene di solito) che poi consegnerà le immagini alla corte. Presenti, oltre ai giudici togati e popolari, una quarantina di persone tra cancellieri, avvocati di parte civile, difensori dei dieci imputati – a partire dal legale del boss Totò Riina – oltre, ovviamente, ai pm della procura di Palermo Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene, al procuratore aggiunto Vittorio Teresi e al procurato facente funzioni Leonardo Agueci..

E sarà proprio Teresi il primo a prendere la parola. Il pool di magistrati siciliani ha lavorato fino a tardi ieri sera per mettere a punto la lunga serie di domande da rivolgere al capo dello Stato. Domande che sono diventate ancora più numerose dopo che la procura di Firenze ha ritrovato un rapporto del Sisde datato 20 luglio 1993 e ammesso nei giorni scorsi tra gli atti del processo dal presidente della corte d’Assise Alfredo Montalto. Nel documento, in cui per la prima volta si farebbe riferimento all’esistenza di una trattativa, si parla di un progetto della mafia di compiere un attentato contro lo stesso Napolitano e Giovanni Spadolini quando ricoprivano rispettivamente le carica di presidente della Camera e del Senato. Proprio gli anni in cui si sarebbe svolta la trattativa e che pongono Napolitano nella posizione di dover rispondere anche a domande relative a quel periodo. Gli venne riferito del pericolo? E gli furono aumentate le misure di sicurezza?
Dunque al capo dello Stato i pm non chiederanno più solo chiarimenti relativi alla lettera che nel giugno del 2012 gli scrisse il suo consulente giuridico Loris D’Ambrosio, morto in seguito, e nella quale gli rivelò i suoi dubbi per alcuni episodi avvenuti tra i 1989 e il 1993, quando lavorava al ministero della Giustizia con Giovanni Falcone.

Le ultime novità di certo non sono piaciute al Colle. Con una lettera inviata nei mesi scorsi al presidente della corte d’Assise, Napolitano aveva infatti detto non avere novità da riferire in merito alla lettera di D’Ambrosio, accettando comunque in seguito di testimoniare, seppure all’interno dei paletti ben precisi imposti dalla Corte costituzionale. Adesso però lo scenario sul quale può essere chiamato a rispondere si è allargato, tanto più che riguarda proprio gli stessi anni a cui D’Ambrosio faceva riferimento nella sua missiva. Esclusi colpi di cena, come una marcia indietro sulla disponibiltà a testimoniare, Napolitano potrebbe però rifiutarsi di rispondere a domande relative proprio all’epoca in cui era presidente della Camera.

Dopo i pubblici ministeri sarà la volta dei difensori degli imputati in particolare dell’avvocato Luca Cianfaroni, che difende Totò Riina. Ieri il legale ha riferito che il boss si sarebbe detto «dispiaciuto» di non poter partecipare in videoconferenza all’udienza di oggi al Quirinale. Poi ha spiegato di avere - oltre al controinterrogatorio – anche lui molte domande da rivolgere al capo dello Stato, su un tema più ampio e relativo «a quanto accadde tra il 1993 e il 1994». Non è detto però che accada oggi. Perché la corte potrebbe decidere di rinviare le domande dei legali, ma anche perché Napolitano potrebbe, come è suo diritto, ritirare la sua disponibilità a testimoniare.