Il giorno del silente incaricato
Ultime ore I partiti lasciati al buio, nel giorno decisivo per la compilazione della lista il presidente incaricato Mario Draghi non comunica con la sua prossima base parlamentare. Si afferma una lettura piegata verso la premiership dell'articolo 92 della Costituzione. L'ufficio a Bankitalia e il precedente Ciampi
Ultime ore I partiti lasciati al buio, nel giorno decisivo per la compilazione della lista il presidente incaricato Mario Draghi non comunica con la sua prossima base parlamentare. Si afferma una lettura piegata verso la premiership dell'articolo 92 della Costituzione. L'ufficio a Bankitalia e il precedente Ciampi
Non ascolteranno i nomi dei ministri in diretta dal Quirinale, anche loro come tutti i cittadini, ma quasi. Ieri sera i vertici dei partiti coinvolti nella nuova maggioranza extralarge sapevano ancora pochissimo di quello che il presidente incaricato Mario Draghi ha deciso sulla composizione del suo governo. E che comunicherà oggi quando – ma anche in questo caso si tratta di una ragionevole supposizione e non di una certezza – scioglierà positivamente la riserva. Solo poco prima informerà i partiti e confermerà le sue scelte ai «tecnici» con i quali ha già parlato in questi giorni. Conoscendo quanto siano politicamente pericolose le notti romane, l’ex presidente della Bce e prossimo presidente del Consiglio ha mantenuto il silenzio per tutta la giornata di ieri. Lasciando ai partiti, soprattutto a quelli della maggioranza uscente che hanno da perdere parecchio in termini di posizioni di governo, molte speranze e moltissime paure. Appena lenite dalla voce, insistente ma anche questa non verificabile, che le caselle fondamentali – esteri, difesa, interni e salute – potrebbero essere confermate.
La giornata di ieri di Draghi è stata l’unica in cui si è vista la replica del «metodo Ciampi», precedente al quale questo secondo governo guidato da un ex governatore della Banca d’Italia viene spesso avvicinato. Prima di ieri Draghi, a differenza di Ciampi, ha fatto consultazioni formali e ha tenuto aperta la riserva per oltre una settimana, e non solo per un paio di giorni. Ma anche lui nel giorno decisivo ha lavorato nel più stretto riserbo da casa, a Roma, e da un ufficio messogli a disposizione (da Bankitalia, però, e non dal senato come fu per il predecessore nel ’93). Ciampi ospitò diversi interlocutori nella sua casa romana del quartiere Trieste, Draghi non risulta abbia avuto visite nella sua casa, poco distante, dei Parioli. Sicuramente la lista si è composta al telefono e intuibilmente anche al telefono con il Quirinale.
In piena astinenza da informazioni, Zingaretti, Salvini, Crimi e non solo loro hanno dichiarato di affidarsi completamente a Draghi. Accettando un’interpretazione un po’ forzata, curvata verso la «premiership», dell’articolo 92 della Costituzione. Articolo che riconosce sì al presidente del Consiglio (incaricato) e solo a lui il potere di proporre i ministri al capo dello stato, che li nomina. Ma da nessuna parte esclude che le sue decisioni siano frutto di un’interlocuzione con i gruppi politici che si apprestano a votargli la fiducia. La Costituzione non dice altro e domina la prassi che, salvo il caso Ciampi, ha sempre visto i partiti coinvolti nella preparazione della lista dei ministri. È poi vero che non mancano i precedenti, neanche in questa legislatura, di un parere contrario del presidente della Repubblica alla nomina di questo o quel ministro. In genere, nei lunghi anni della cosiddetta prima Repubblica, quel parere è rimasto riservato. In qualche caso, dal no di Scalfaro a Previti alla giustizia nel ’94, è stato anche un no pubblico. Ma certamente la Costituzione esclude che ci sia una codecisione dei due presidenti sulla fatidica lista che – com’è verosimile ma, ripetiamo, non certo – oggi Draghi leggerà davanti ai microfoni al Quirinale.
Non è certo una condizione quella che Zingaretti, nel silenzio del telefono, ha posto ieri in diretta streaming aprendo e chiudendo la direzione del Pd: «Chiediamo una squadra autorevole, che rispetti il pluralismo politico e la differenza di genere». Non potrà che essere così. Salvini è l’unico che ha detto apertamente di «sperare di essere ministro» solo per rimarcare il ruolo, ingombrante, della Lega in questo governo. Poco dopo, peraltro, in una differente trasmissione, il leghista ha detto che lui «non sta a sperare di fare il ministro». Confermando che anche in versione «salvezza nazionale» gli capita di cambiare idea.
Ieri sera Mario Draghi è passato anche alla camera dei deputati, sede delle sue lunghe giornate di consultazioni, e ha avuto un veloce colloquio, un saluto, con il presidente Fico. Tornerà per le dichiarazioni programmatiche e la fiducia, a metà della prossima settimana. Ma prima andrà al senato, probabilmente martedì prossimo. Se tra oggi e domani, effettivamente, giurerà da trentesimo presidente del Consiglio.
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