Visioni

Il gioco delle illusioni in un quartetto d’archi

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Intervista Il compositore francese Pierre Thilloy parla dei «Falsari», presentato in prima mondiale al cantiere dell'Arte di Montepulciano.Una rilettura del complesso testo di Gide nata come una sfida

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 30 luglio 2014

Uno fra i più complessi testi di Gide, I Falsari ( Les faux Monnayeurs) ha già trovato due anni fa la strada dello schermo in Francia, con una poco riuscita pellicola televisiva di Benoit Jacquot. Con risultato di maggior peso approda ora al teatro musicale: il Cantiere d’arte di Montepulciano ha infatti ospitato la creazione dei Falsari, seconda opera del compositore francese Pierre Thilloy. Nato nel 1970, Thilloy, avviato agli studi musicali relativamente tardi, è un compositore piuttosto prolifico e dallo stile eclettico, con all’attivo otto sinfonie, concerti, una nutrita serie di lavori cameristici, trascrizioni e adattamenti.
Sono stati accolti bene, I Falsari, presentato giovedì 24 al Teatro Poliziano in prima assoluta, protagonisti i componenti del collettivo musicale Kord, direzione di Vincent Monteil e regia Guy-Pierre Coulaeu.

Perché ha scelto un testo di Gide così difficile e poco adatto alla scena?

La scelta del testo nasce dall’incontro con la figlia di Gide Catherine (scomparsa nel 2013, nda), che ha insistito molto perché scrivessi un’opera su un testo di suo padre. Il mio interesse si è appuntato su I Falsari perché questo testo giovanile di Gide sfugge a tutte le normali regole della messa in scena, e in qualche modo, nel suo essere quasi irrappresentabile, determina una sfida per il compositore. Anche se alla fine è un’opera di carattere forse più tradizionale rispetto alle precedenti. Ecco, la molla è stata soprattutto una sfida.

Per il libretto ha chiamato Jean Pierre Prévost, regista televisivo e cinematografico, che ha realizzato una biografia di Gide. Come avete lavorato?

Si tratta di un lavoro drammaturgico molto articolato, di forte carica omoerotica, con almeno quarantacinque personaggi da portare in scena: è evidente che per raccontarlo nella sua interezza avrei dovuto scrivere una specie di tetralogia. Ho chiesto a Jean Pierre di concentrarsi sulla tematica dell’illusione che pervade il libro. È un testo molto forte da portare sulla scena, proprio grazie al gioco di illusioni, di scatole cinesi. Per renderlo come volevo l’elemento cardine, abbiamo dovuto isolare un’opera all’interno dell’opera.

Come si rapporta con le voci liriche, e come ha trattato la voce in quest’opera?

Non ho usato la voce troppo spesso, ma ho grande rispetto per le voci liriche, e per questo me ne servo con attenzione. Nella mia opera precedente (Le jour des meurtres dans l’histoire de Hamlet, da Koltès) avevo utilizzato vocalità estreme, come una parte impervia da soprano di coloratura. Nei Falsari è diverso, sono consapevole di tutto il portato che una voce lirica naturalmente trascina con sè, e anche se non sono diffidente verso la vocalità lirica preferisco impiegarla con cautela e delicatezza. Qui c’è un gruppo di cantanti eccellenti, ai quali la mia musica chiede davvero molto.

L’uso dello sdoppiamento delle voci attraverso una registrazione, e l’utilizzo dell’elettronica sono mezzi espressivi che servono a rendere l’ambiguità complessa della vicenda?

No, sono una scelta musicale. Abbiamo registrato le voci dal vivo e questo fa in modo che si sovrappongano a quelle che cantano sulla scena, ma in una maniera non sempre percepibile. Il pubbliconon dovrebbe subito rendersi conto dello sdoppiamento, il cui uso permette inoltre di arrichire il timbro del cantante. Per esempio il baritono, in un lungo passaggio che potremmo definire una vera e propria aria, canta mentre la stessa linea melodica risuona in un registro superiore, offrendo così alla voce una risonanza dal carattere speciale.

Anche qui c’è un quartetto, formazione per cui ha scritto molto, come mai?

È vero, pure se appena uscito da conservatorio l’ultima cosa che volevo fare era scrivere un quartetto d’archi, mi sembrava troppo convenzionale. Fatalmente il mio primo quartetto l’ho scritto per ricordare una mia cara amica ( In memoriam Rebecca – Quartetto da Requiem), con la scoperta che scrivere un quartetto richieda l’arte più difficile e per un musicista. Se ci pensiamo il quartetto d’archi è alla base della scrittura per grande orchestra sinfonica; è l’elemento centrale, fondante la musica occidentale, una forma per la quale sono stati scritti dei monumenti assoluti della storia musicale.

Lei non sembra preoccupato, nelle forme che usa, dei rapporti e delle tensioni fra avanguardia e tradizione.

All’epoca dei miei studi sembrava necessario coltivare posizioni d’avanguardia, c’era una vera ossessione per il linguaggio avanguardistico, sia che fosse dirompente, virtuosistico, o che includesse l’elemento elettronico. A me sembrava che queste discussioni mi allontanassero dall’essenza della musica, e nella mia scrittura ho cercato in primo luogo gli elementi essenziali per una creazione musicale efficace. Un po’ come se, nel disegnare un’automobile si determinassero le componenti di base che la fanno camminare, quattro ruote, una trasmissione e un motore, sul quale poi si possono innestare dettagli addizionali, siano essi incredibilmente avanguardistici o molto tradizionali. Poi ho fatto molti viaggi, specie in quei nove decimi del mondo in cui, ad esempio, c’è un rapporto diverso con la voce, con il suono, con la fruizione e con la creazione della musica. Sicuramente anche questo ha lasciato il suo segno.

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