Il gioco continua: Katniss verso la rivoluzione
Al cinema Nelle sale il secondo blockbuster distopico tratto dalla saga di Suzanne Collins
Al cinema Nelle sale il secondo blockbuster distopico tratto dalla saga di Suzanne Collins
Una casetta grigiastra dal look neoclassico, arredata di mobili finto antico e identica a tutte quelle che la stanno di fronte e di fianco, dietro a un cancello che sembra l’ingresso di un cimitero di Tim Burton. È quel tipo di lusso, insieme alla garanzia di poter sfamare la tua famiglia e di non dover mai più lottare per la sopravvivenza contro una ventina di coetanei disperati come te, che si ottiene vincendo gli hunger games, I tornei della morte per minorenni, immaginati da Suzanne Collins (e prima di lei dallo scrittore giapponese Koushun Takami e dal regista Kinji Fukasaku) nella sua trilogia di romanzi per ragazzi, oggi diventati un fenomeno culturale planetario e multinegerazionale. È il tipo di lusso che non dà molta soddisfazione all’eroina della trilogia, Katniss Everdeen, teen ager guerriera del poverissimo distretto minerario numero 12, che, insieme ad altre 11 provincie (in diversi gradi di miseria), provvede annualmente le vittime sacrificali per il sanguinario circo della capitale –che (nello spirito di Survivor) è anche un reality seguitissimo.
All’inizio di La ragazza di fuoco, tratto del secondo romanzo della trilogia (più di 170 milioni di dollari al box office Usa, 4 giorni dopo l’uscita), troviamo Katniss (Jennifer Lawrence), fuori dai confini del distretto, nella foresta dove caccia illegalmente, e che è l’unico posto dove può sentirsi libera. Tutta blu, neri e grigi che ne riflettono la determinazione d’acciaio, Katniss sembra una Pocahontas postatomica, o uno dei ragazzini guerriglieri in Red Dawn di John Milius. Come quegli epigoni di Geronimo, Katniss (preferibilmente armata di arco e frecce) diffida del potere e dei regimi autoritari; è una ribelle ma ha un fortissimo senso della famiglia e della giustizia. Tutti ingredienti che la rendono un’icona esplosiva (e unisex) per gran parte dei teen ager di questo pianeta, e (grazie alla penna di Collins) per i poveracci delle 12 provincie di Panem. Capisce quel suo potenziale rivoluzionario anche il presidente Snow (Donald Sutherland) che, invece di lasciarla languire nella sua ricchezza triste, indecisa tra due fidanzati decisamente inferiori a lei, complotta per eliminarla inventando un’edizione speciale degli hunger games a base di sopravvissuti di quelle passate. Così Katniss e Peeta, il suo boyfriend mediatico (che però la ama sul serio) ripartono a bordo del lussuoso treno verso la capitale, con la spumeggiante pr Effie Trinket (Elizabeth Banks) e lo stratega alcolico Haymitch Abernathy (Woody Harrelson). Tutti diretti verso una nuova olimpiade di sangue.
Come Hunger Games, Catching Fire è un adattamento fedele del libro di Collins. Ma, dopo i 400 e passa milioni di dollari d’incassi del primo film, sono cambiati alcuni ingredienti fondamentali –a partire dal budget, 130 milioni contro i 70 dello scorso capitolo. Diverso anche il regista, con il videoclipparo viennese Francis Lawrence (I Am Legend, Constantine) che rimpiazza Gary Ross, un filmmaker intelligente e «politico» (Seabuiscuit, Pleasantville), ma negato per l’azione. Alla sceneggiatura sono Simon Beaufoy (The Full Monty) e Michael Arendt (Toy Story 3). Tra i nuovi arrivati, felice la scelta della costumista inglese Trish Summerville, che aveva già vestito una «sorella» di Katniss, Lisbeth Salander, in The Girl With the Dragoon Tattoo e che investe sul potenziale fashion offerto dai fasti della capitale come una Vivienne Westwood in acido. Philip Seymour Hoffman, Jena Malone, Jeffrey Wright e Amanda Plummer si aggiungono al cast.
Immaginarsi quindi un film sostanzialmente più ricco sotto parecchi punti di vista, ma anche meno curioso. Mentre il primo romanzo (il più «puro» dei tre) era concentrato intorno ai giochi mortali, in Catching Fire, la trama della rivoluzione in divenire, che si propaga di provincia in provincia mentre le truppe del governo esercitano misure sempre più repressive, alleggerisce almeno in parte Francis Lawrence (che aveva docilmente accettato di annacquare Richard Matheson per Will Smith) del problema di visualizzare dei teen ager che si uccidono ferocemente a vicenda rispettando però il rating PG 13 (vietato ai minori di 13 anni non accompagnati) imposto dalla Lionsgate, la casa di produzione già dietro ai Twilight. Ross aveva cercato di ovviare alla contraddizione con una sorta di realismo pseudodocumentario fatto di macchina «a mano» sempre in movimento – in cui però alla fine non si vedeva e non si suggeriva niente. Aiutato poi da un budget degli effetti speciali che prima sembrava assente, il nuovo regista addotta un approccio all’azione più convenzionalmente industriale, efficace ma piuttosto privo d’inventiva e di gioia pulp. Come i Twilight, questi due primi Hunger Games (il terzo libro, Mocking Jay sarà diviso in due capitoli previsti in sala per il 2014 e il 2015) sono film «simpatici», agili, non appesantiti dagli eccessi produttivi degli studios. Ma molto «prudenti». Chissà che meraviglie farebbe un filmmaker di tradizione cormaniana alle prese con le suggestioni politiche e visive offerte dalle pagine di Collins. Inoltre, nonostante la presenza intensissima di Jennifer Lawrence sia un’ancora molto forte, i film patiscono del fatto che la storia non è raccontata in prima persona come nei libri. C’è meno pathos, meno irriducibilità, meno gioco sulla componente mediatica,
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