Cultura

Il giocatore imprevedibile

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Ritratti «Tra i miei mondi», l'autobiografia di Leo Lionni edita da Donzelli. La storia di un artista eccentrico, graphic designer in America, pittore in Italia e grande autore per bambini in tutti e due i continenti

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 10 febbraio 2015

«Caro Bob, la vita non è a finale aperto. Si raggomitola e, alla fine, si mangia la coda». Scrive così un anziano Leo Lionni al suo amico americano Bob Osborn, che lo ricambiava scagliando le sue rabbie e delusioni sulla carta per acquerello Arches. Poco tempo dopo, quando alla forza invisibile dell’immaginazione si era ormai sostituita quella fatale del Parkinson, Lionni dovrà eliminare dal racconto di se stesso ogni tentazione di «lieto fine». Lo farà con la consueta educazione e il bon ton del suo conversare, certo che la morte «sia solo una tremenda perdita di tempo», come dirà a un giornalista olandese durante un’intervista. Quella «perdita di tempo» ineludibile gli toccherà nel 1999, non prima però di aver lasciato che trascorresse una lunghissima ed effervescente vita su questa terra, a cavallo di continenti e professioni. In fondo, Lionni non è mai cambiato con l’età: è rimasto identico a quel ragazzino che a scuola si sentiva come «un gatto in un magazzino sconosciuto».

Nel libro Tra i miei mondi, edito da Donzelli (pp. 30, euro 33, a cura di Martino Negri e Francesco Cappa) Leo Lionni – ad ondate affettive e poi con aggiustamenti razionali e cronologici – narra con giovialità il suo particolare status di artista dall’identità multipla: graphic designer di successo negli Stati Uniti (dopo il forzato trasloco a causa delle leggi razziali), pittore col sogno di non avere più orari di ufficio, poi autore di albi per l’infanzia quasi per caso e anche grazie alle virtù di una grammatica dello spazio del tutto innovativa, coltivata per diletto e pura mania.

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Il dna di un creativo
È un volume strano quello che ci si ritrova così a leggere e a sfogliare. Uscito in America due anni prima della scomparsa del protagonista, l’autobiografia è come se contenesse in sé due palinsesti: uno relativo all’esistenza reale, al trastullo di giorni che si susseguono, spesso scompaginando le carte in tavola, giocando d’azzardo col destino di un emigrato che ha sempre trattenuto quello sradicamento nella composizione della sua anima; l’altro riguarda invece il ricordo vivido del traduttore dell’opera, Mario Maffi. Dato che Nora, moglie di Lionni, era la cugina di suo padre Bruno, Maffi ha goduto di una certa famigliarità con la coppia e ha avuto dimestichezza con la «materialità» di un fare arte in modo eccentrico. Ha così potuto trascodificare uno stile di scrittura che procedeva in maniera spiraliforme e labirintica, spesso scantonando fra passato presente e futuro. E ci è riuscito, rimodellando quell’atteggiamento mentale su ciò che aveva visto da ragazzo, quando la risata di Leo, i suoi calembour visivi, i ritagli di carta in libertà facevano nascere bruchi-misuratutto ed elefanti in «maniera buffa», cioè seguendo la sapienza delle mani, la loro memoria ancestrale.

Il libro si apre su un’immagine quasi cinematografica che sarebbe piaciuta moltissimo al Martin Scorsese di Hugo Cabret. Leo, bambino olandese, figlio di un intagliatore di diamanti freelance che aspira a un sedentario posto da ragioniere, e di una madre con il dono del canto, circondato da una famiglia variopinta e non proprio tradizionalissima, se ne sta solitario in una stanza stipata di erbari e terrari, mentre i suoi parenti si danno da fare per affollare le pareti delle varie case con i quadri di Chagall e Klee. «Un grande tavolo aveva contenitori di ogni genere, forma e dimensione, ciascuno con il suo vispo inquilino: vasetti di marmellata con bruchi, mantidi religiose e libellule, lattine con vermi per la dieta dei pesci, rane e uccelli. C’erano acquari, quadrati e tondi, con pesciolini, black molly, lumache e gamberi d’acqua dolce. In una gabbietta, due topolini bianchi non facevano che rovistare in uno strato di segatura che mandava un dolciastro odore d’urina», racconta Leo. Non ci vuole molto per accorgersi che quegli animaletti saranno poi i protagonisti delle sue fiabe, quando per avventura Lionni – da pubblicitario inserito in un universo glamourous – approderà alla letteratura per ragazzi, rivoluzionandone i codici. Anche i paesaggi di carta che un topo come Federico finirà per abitare provenivano da quei muschi, sabbie e ciottoli tenuti vicino al letto.

Matite da temperare
All’inizio, per la verità, ci furono solo dei tondini a colori: Little blue and little yellow videro la luce in America grazie alla lungimiranza di Fabio Coen, editor per la MacDowell Obolensky. Nel 1959, Lionni era un art director di fama, un illustratore di punta della rivista Fortune, ideatore di campagne pubblicitarie che hanno solleticato l’immaginario, eppure quello fuil principio di una nuova carriera e di una svolta psicologica determinante. Avvenne casualmente, quando in veste di nonno fu costretto a inventare una storiella per tenere buoni i nipoti sul treno in viaggio verso Greenwich. Aveva con sé la rivista Life e gli tornarono utili i suoi ritagli di carta.

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Quello che poi divenne un libro di successo – cui seguirono molti altri – era il punto di arrivo di una ricerca maniacale, cominciata molti anni prima, quando, impiegato alla Ayer, Lionni aveva solo il compito di osservare e imparare il mestiere da altri graphic designer, come Leon Karp (fu lui a insegnargli a fare la punta a una matita 6B da carpentiere). Apprendeva in maniera diligente, ma intanto studiava le posizioni nello spazio, riempiva pagine e pagine di piccoli rettangoli, poi trafiggeva quei fogli con una matita affilatissima. Ogni puntino disegnato esprimeva una emozione. Così i dischetti colorati che si trasformavano in personaggi non erano altro che l’emanazione di quella ossessione da architetto impazzito. La stessa che lo portò, giovanissimo, a scrivere trame di film surrealisti sul retro di vecchi assegni quando lavorava per una ditta petrolifera «con la mente in licenza in qualche altro continente».

Verso l’Italia
L’anno 1959, dopo i tanti balletti e vagabondaggi da una città all’altra, segnò una svolta. Il desiderio mai abbandonato di «avere più tempo per dipingere» prese corpo: Lionni trovò il coraggio di dimettersi dai suoi prestigiosi incarichi americani (anche da consulente per la Olivetti). Lo ritroveremo sul piroscafo in direzione dell’Italia: tornò con Nora, sempre pronta ad arredare nuove case in allegria. In realtà, questa donna che ha avuto in dono di superare il secolo di vita, doveva essere stata baciata dalla dote della pazienza: ha ribaltato la sua quotidianità secondo il capriccio creativo del marito decine di volte, viaggiato in navi da sola, allevato i due figli in Olanda, Italia, Stati Uniti, resistendo a grandi dolori (la morte prematura del figlio Paolo). Nonostante tutto, è rimasta sempre fiduciosamente al fianco di Leo. Si erano conosciuti da adolescenti e lui, prima innamorato della sorella Adda, l’aveva inseguita con tenacia fino alla capitolazione.

Sarà comunque in Italia che, immerso nel sole mediterraneo, Lionni potrà vivere nuovamente la sua passione artistica, diventando pittore e scultore nelle residenze di campagna, prima in Liguria, poi in Toscana. Le sue opere mostreranno escrescenze oniriche e piante rigogliose sbarcate da altri pianeti. Andranno a comporre anche quel libro irripetibile che fu La botanica parallela, manuale di una scienza di finzione dove si possono studiare le caratteristiche della Giraluna.


Così Lionni, riconquistando in pieno le sue ore per dipingere in pace, ha chiuso il suo cerchio. Il giovane innamorato del Bauhaus, reclutato nelle fila degli aeropittori da Marinetti, poi assunto nell’olimpo della pubblicità americana e divenuto amico di artisti come De Kooning, Léger e Calder, da lontano poteva permettersi anche il lusso della nostalgia. Bastava guardare all’America dall’antico e severo osservatorio europeo.

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