Una ondata di «giapponismo» sta diffondendosi nel nostro Paese. A partire da Roma, dove si è conclusa la mostra Arte in Giappone 1868-1945, risalendo sino a Milano, palcoscenico di eventi di ogni tipo legati al Sol Levante: dal design del Salone del Mobile alla retrospettiva sul fumetto, il «Milano Manga Festival», alla rassegna di cinema documentaristico d’autore e d’animazione dal Yamagata International Documentary Film Festival all’interno della rassegna Docucity dell’Università degli Studi di Milano. A Genova, Palazzo Ducale ripropone, all’interno di La storia in piazza, parte della collezione di fotografie giapponesi di fine Ottocento del Museo delle Culture di Lugano, che già aveva toccato Venezia l’anno passato. A Reggio Emilia, invece, la Biblioteca Panizzi dedica, sempre alle immagini di fine Ottocento giapponese, un’esposizione integrata nel festival Fotografia Europea.

Come mai questo boom di iniziative legate a un Paese da noi tanto lontano quanto per tanti versi affine? Il Giappone, negli ultimi decenni, ha imparato a offrire all’Occidente l’immagine di sé più apprezzata, guardandosi e proponendosi in modo auto-esotico. Questo ha comportato come conseguenza che, accanto alle linee semplici ed essenziali del Giappone firmato da architetti, designer e mangaka, vi sia un altro Giappone più classico, di colori brillanti, paesaggi e figure legate alla tradizione autoctona delle silografie policrome del Mondo Fluttuante che continua a vivere parallelamente. Che si parli di manga o di fotografia antica, l’origine è da ricercarsi in quella stessa tradizione pittorica firmata da artisti quali Hokusai, Hiroshige e Utamaro che affascinò l’Europa di fine Ottocento e che continua evidentemente a esercitare un grande richiamo anche oggi.
Le mostre di Genova e Reggio Emilia ci raccontano di un’Italia che viaggiava, collezionava e documentava il diverso che incontrava ben prima che il turismo e i voli intercontinentali eliminassero ogni barriera, almeno apparentemente. Dunque la fotografia – importata in Giappone solo a metà dell’Ottocento, quando i porti del Paese furono forzati all’apertura all’Occidente dopo oltre 250 anni di chiusura sotto il governo militare degli shogun Tokugawa – esplose subito come mezzo per testimoniare, divulgare e promuovere la bellezza dei territori visitati, così come le usanze, i costumi e le peculiarità di una cultura avulsa dai canoni occidentali e che andò di lì a poco scomparendo. Yokohama, il porto più vicino a Tokyo, divenne il fulcro del mercato delle immagini tanto da definire la produzione fotografica a cavallo tra la fine del periodo Edo (1603-1868) e il periodo Meiji (1868-1912) come Yokohama shashin, ossia fotografia di Yokohama.

In quanto area privilegiata di contatto e di scambio con l’esterno vide la nascita dei primi e più grandi studi fotografici giapponesi e stranieri a partire dagli anni sessanta dell’Ottocento, quello del veneziano Felice Beato (1834-1909), del barone austriaco Raimund von Stillfried, del giapponese Kusakabe Kimbei, del vicentino Adolfo Farsari, solo per citarne alcuni.

Si trattava di un genere fotografico peculiare del Giappone che riproponeva i canoni estetici e formali delle silografie, esaltando i gusti, le mode, le celebrità e i luoghi più frequentati della classe borghese, cresciuta durante il periodo Edo con lo sviluppo della struttura cittadina.

La tecnica, che ancora non permetteva la stampa a colori, venne integrata da subito con l’acquisizione di figure professionali come i pittori artigiani, formati negli studi per applicare a pennello il colore sulle immagini. In questo giocarono un ruolo determinante i due italiani: per primo Felice Beato che avviò la pratica a partire dal 1863 e, in seconda battuta, Adolfo Farsari che negli anni ottanta portò ai massimi livelli l’arte della coloritura delle foto selezionando con cura e riconoscendo anche economicamente il valore dei suoi pittori di bottega.
La mostra di Genova Geishe (Sic!) e samurai. Esotismo e fotografia nel Giappone dell’Ottocento evidenzia quanto permanga in queste fotografie una scelta di inquadrature e soggetti che si rifacevano esplicitamente alla pittura giapponese: i soggetti sono messi in posa in studio ricreando ambientazioni e mimando gestualità già rese archetipi dalle immagini dell’ukiyoe: beltà femminili, samurai, lottatori di sumo, ma anche artigiani e venditori ambulanti. Le inquadrature delle vedute del Giappone, propongono solitamente un elemento in primissimo piano, spesso posto asimmetricamente rispetto alla centralità dell’immagine, e una visione panoramica del paesaggio in secondo piano: luoghi noti per la loro bellezza naturalistica, come mete di pellegrinaggio o di gite spassose, e divenuti tappe irrinunciabili di ogni viaggiatore non appena il Paese permise agli stranieri di accedervi.

L’esposizione presso la Biblioteca PanizziViaggiatori, fotografi, collezionisti nell’Oriente di fine Ottocento, curata in collaborazione con il Japan Camera Museum di Tokyo, completa la visione, mostrando lo scenario che i primi viaggiatori, diplomatici o di classi abbienti, si trovarono di fronte una volta attraversato l’Oceano. I tre album della collezione dell’Ambasciatore Alberto Pansa (1844-1928) e della moglie Maria Gigli Cervi Pansa (1867-1960) che raccolgono immagini del Giappone, della Cina e del Siam, rispondono maggiormente a un interesse documentaristico, testimoniato anche dalla fattura semplice e omogenea delle copertine in tessuto e con i soli titoli stampati in caratteri dorati. Oltre che dai fitti diari di viaggio tenuti dai due, studiati per la prima volta per questa mostra, che raccontano la loro visita in Giappone nel 1893 e l’acquisizione delle fotografie a Yokohama, che fa pensare potesse trattarsi dello studio di Farsari, vista la qualità altissima del colore delle immagini dell’album.

Un’occasione preziosissima per ricostruire il tessuto culturale di un’epoca che, se da una parte vide numerosi italiani contribuire significativamente alla modernizzazione/occidentalizzazione del Giappone, dall’altra fu anche testimone della creazione delle più importanti collezioni d’arte orientale in Italia e in Europa. Tra queste, il Museo di arte orientale Edoardo Chiossone di Genova (in Giappone negli stessi anni in cui si recò l’ambasciatore Pansa), alcuni pezzi del quale accompagnano il percorso fotografico di Palazzo Ducale e che ha sempre segnato uno stimolo particolare per la città verso iniziative legate al Giappone; il Museo d’arte orientale di Venezia, costituito dalla collezione del Conte Bardi, Enrico di Borbone in Giappone qualche anno prima; la collezione di Vincenzo Ragusa del Museo Preistorico Etnografico Luigi Pigorini di Roma, e tante altre collezioni sparse nei nostri immensi musei.