Cultura

Il genoma umano rinchiuso nella statistica delle discriminazioni

Il genoma umano rinchiuso nella statistica  delle discriminazioniIllustrazione di Gustavo Dorietto, Karyn Bieneman (Estudiorama)

Genomica I dati elaborati su un campione di «bianchi» applicati agli afroamericani. Il determinismo dietro la predisposizione ad alcune malattie evidenziato dalla rivista «Nature». E sul legame tra i geni e le malattie ne sappiamo ancora poco. Colpa di banche dati troppo «razziste».

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 16 ottobre 2016

Il legame tra geni e malattie è di per sé una questione complicata. Ma due articoli pubblicati sull’ultimo numero della rivista Nature affermano che le cose stanno ancora peggio di così: finora gli scienziati avevano capito poco, e quel poco era sbagliato. Dunque, come suggerisce l’editoriale della rivista, occorre proprio «ripensare il legame tra geni e malattie». Per esempio, dovremmo smetterla di pensare che tutti gli uomini siano bianchi e di origine europea.

Negli ultimi mesi, diversi segnali erano andati in questa direzione. Prima di tutto, a fine agosto uno studio aveva mostrato nero su bianco i limiti della nostra capacità di risalire dalle malattie alla loro origine genetica. Lo affermava una ricerca che ha coinvolto molti centri in tutto il mondo, coordinati da Daniel G. MacArthur, genetista del solito Broad Institute di Boston dove è nata anche l’altra rivoluzione biotech di questi anni, la tecnica Crispr-Cas9.

MACARTHUR e i suoi colleghi hanno messo insieme una grande banca dati genetica denominata ExAC (sigla di «Exome Aggregation Consortium») che riunisce le sequenze relative ai geni di circa novantamila individui. Poi hanno analizzato la frequenza delle mutazioni genetiche ritenute dannose, cioè suscettibili di provocare malattie. L’analisi dei genomi ha rivelato che moltissime di queste mutazioni in realtà non sono pericolose: esse sono infatti presenti in moltissimi individui che non sviluppano la malattia associata. Ciò non esclude del tutto che il gene sia associato alla malattia. Suggerisce però una maggiore cautela nell’interpretazione delle diagnosi genetiche, soprattutto quando essi vengono utilizzati per prescrivere terapie o interventi preventivi.

D’altronde, molte malattie possono derivare da una sola mutazione, e tante mutazioni possono generare la stessa malattia. Inoltre, l’interazione dell’individuo con l’ambiente può fare in modo che certe mutazioni provochino un danno e altre no. Dunque, stabilire un legame tra mutazioni e patologie è estremamente difficile. Dato che i meccanismi di funzionamento delle cellule sono ancora in gran parte ignoti, questa associazione viene fatta essenzialmente sulla base di analisi statistiche. In altre parole, se individui che hanno la stessa malattia mostrano la stessa mutazione, si può ritenere che quella mutazione sia da considerare patogena. Ma tra correlazione statistica e causalità c’è una bella differenza. Perciò, attribuire un’origine genetica a malattie, o addirittura al comportamento degli individui genera controversie che vanno ben al di là dei laboratori scientifici.

TUTTAVIA, NONOSTANTE il discredito che circonda il cosiddetto «determinismo genetico» presso la maggioranza degli scienziati, intorno ad esso è nato negli anni un nuovo mercato farmaceutico, quello della diagnostica genetica. L’esempio più noto è forse quello della «23 and Me», un’azienda statunitense controllata da Google a cui si può inviare un campione di saliva (più un bonifico di 159 dollari) per ricevere informazioni sulle proprie mutazioni genetiche e sui rischi sanitari che esse comportano.

Ora, affermano le ricerche, quelle informazioni vanno prese con ancora maggiore cautela. Grazie ai dati del catalogo ExAC, si è scoperto che in media ognuno di noi porta nel proprio codice genetico 54 mutazioni finora considerate pericolose, ma 41 di esse in realtà sono innocue. Infatti, estendendo l’analisi all’intero catalogo, si osserva che esse sono molto diffuse anche tra le persone sane.

LE CONSEGUENZE di questa scoperta sono notevoli: circa duecento associazioni tra mutazioni genetiche e malattie note in letteratura sono state riesaminate dal team messo insieme da MacArthur e cancellate dai manuali.

Ma com’è possibile che anni di studi genetici si rivelino improvvisamente errati? Come spesso avviene in medicina, alla base degli errori c’è un uso disinvolto della statistica. Finora, l’analisi delle associazioni tra malattia e geni veniva effettuata studiando il Dna degli individui malati, che spesso sono poche unità. Il catalogo ExAC, data la sua estensione, consente di confrontare il genoma degli individui malati con quello degli individui sani e sfrondare le diagnosi dei tantissimi «falsi positivi», erroneamente considerati a rischio.

Inoltre, i database su cui sono effettuate le analisi per determinare la rarità di una mutazione non sono ugualmente rappresentativi per tutti i ceppi etnici. Gli stessi curatori del database ExAC ammettono che i genomi a loro disposizione provengono per il 60% da individui di origine europea, e meno del 20% sono di origine latinoamericana o africana. Perciò, una mutazione molto frequente in un certo sottogruppo può risultare «rara» (e dunque significativa) solo perché questo sottogruppo non è rappresentato a sufficienza nel campione complessivo.

Il problema è stato confermato in un altro studio pubblicato da Nature questa settimana, in cui Alice Popejoy e Stephanie Fullerton dell’università di Seattle hanno analizzato l’origine delle migliaia di individui il cui genoma è stato analizzato per stabilire nessi tra geni e malattie dal 2009 a oggi. Se nel 2009 questi genomi erano di origine europea per il 96% dei casi, nel 2016 questa percentuale è scesa all’81% solo per la notevole crescita degli asiatici, saliti al 14% del campione totale, che rispecchia l’espansione della comunità scientifica dell’Asia orientale. Gli studi su individui con origini africane o latinoamericane, invece, costituiscono tuttora una piccolissima percentuale (persino decrescente) del totale.

I GRUPPI sotto-rappresentati subiscono una doppia discriminazione. In primo luogo, in questi gruppi vengono scoperte meno mutazioni genetiche potenzialmente negative con una certa significatività. In secondo luogo, quando si applicano loro i criteri diagnostici sviluppati analizzando altri sottogruppi, il rischio di diagnosi ambigue o errate è notevolmente più alto. Molte terapie si rivelano inefficaci su alcuni gruppi di pazienti. Le ricercatrici, ad esempio, citano un gene da cui dipende la capacità di assimilare un farmaco usato nella cura del cancro al seno, presente in percentuali molto diverse a seconda dei gruppi studiati. «La comunità scientifica sta trasmettendo al resto del mondo un messaggio dannoso e fuorviante: il genoma degli individui di origine europea è più importante», concludono Popejoy e Fullerton.

Non si tratta di un allarme isolato. Nel 2015, Barack Obama in persona ha lanciato la «Precision Medicine Initiative», un progetto nazionale che mira ad aumentare la specificità della ricerca genomica applicata sulle minoranze sociali, etniche e di genere per fornire loro cure e diagnosi altrettanto accurate. Per sostenere l’iniziativa, il governo ha stanziato ben 215 milioni di dollari nel solo 2016. Ben 130 milioni dovevano servire a individuare un campione della popolazione da analizzare «che rifletta la diversità della popolazione statunitense includendo partecipanti di varia provenienza sociale, razziale/etnica e ancestrale». Obama intendeva dare alla sua presidenza una definitiva connotazione di lotta alle discriminazioni, prima che la polizia Usa rovinasse tutto sparando a casaccio sui neri.

NONOSTANTE lo scopo nobile dell’iniziativa obamiana e di altre analoghe, esse rischiano di resuscitare vecchie discriminazioni sotto nuove vesti. È la tesi della sociologa Catherine Bliss, autrice del saggio Race decoded (Stanford University Press). Se, ad esempio, un farmaco dimostrasse un’efficacia maggiore in un gruppo etnico economicamente svantaggiato, una casa farmaceutica potrebbe considerarlo meno appetibile dal punto di vista commerciale.

L’esito di questi progetti, dunque, dipenderà dalla capacità dei gruppi di pressione, che negli Usa si chiamano «lobby», di stimolare i ricercatori a fare il loro lavoro indipendentemente dalle convenienze economiche.

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