Può a un film bastare il suo soggetto? Ce lo chiedevamo uscendo da The Cut, in gara alla scorsa Mostra di Venezia, ora in sala col titolo Il Padre. Il film «cinematograficamente» brutto per costruzione narrativa, scelte visuali, format da coproduzione internazionale era arrivato al Lido con un appeal mediatico extra-cinematografico: il film di un regista turco, pure se Akin vive in Germania, sul tabù dei tabù del suo Paese, il genocidio armeno che peraltro non in molti (lo ha fatto la Francia) riconoscono come tale.

Nel 1915, mentre l’Europa è devastata dalla Prima guerra mondiale, i turchi deportano e eliminano migliaia e migliaia di armeni cittadini dell’Impero ottomano. Giornalisti, intellettuali, poeti, contadini, artigiani – il protagonista è un fabbro – anziani, bimbi, uomini, donne vengono messi in marcia nel deserto dove muoiono di fame, di sete, per le violenze subite, spogliati di tutto. Secondo molti storici il genocidio armeno è una prova dell’olocausto – c’erano ufficiali tedeschi presenti – e inizia già negli anni precedenti, nel 1908, quando al potere arrivano i Giovani Turchi, che spingono per uno stato panturchista, la cui realizzazione prevede la cancellazione fisica e politica della comunità armena.

Qui il film già cede: Akin, a parte un cartello iniziale all’interpretazione storica preferisce il punto di vista della «vittima», non degli armeni, non solo almeno, ma delle vittime tout court, che negli sballottamenti della Storia finiscono per somigliarsi. Non sono le ragioni politiche, economiche, culturali che lo interessano ma appunto la Vittima, con cui il regista si mette al riparo da ogni assunzione di responsabilità – e dai rischi se pensiamo che negli anni ’70 lo storico turco Taner Akcam è stato condannato a dieci anni di prigione per avere parlato del genocidio, e che il film è stato minacciato in patria dagli ultranazionalisti di essere bloccato in ogni sala del Paese.

https://youtu.be/3UtlS51TMN4

Vittime sono gli armeni, nella figura del protagonista privato di parola (metafora di una spoliazione di identità a cui gli armeni vennero sottoposti, con conversioni forzate all’Islam, stupri, famiglie divise, proibizione della lingua). Ma vittime diventano anche i turchi presi a sassate da coloro che ne hanno subito le persecuzioni alla fine del conflitto mondiale.

E vittime sono gli ebrei come dimostra ancora una volta il protagonista, l’armeno errante (Tahar Rahim) – e il mito omerico è certamento un riferimento di questo interminabile viaggio/esistenza- quando viene preso per tale. Nonostante questo le due ore de Il Padre sul genocidio degli armeni dicono poco, lasciano capire ancora meno, e «l’importante è che se ne parli» nel sottotesto (poi perché con un brutto film?) lo rende persino fastidioso. Come diceva lucidamente Fortini la costruzione della vittima cela qualsiasi altra ragione che sta nella violenza commessa dai poteri. Akin tra riferimenti cinematografici più o meno espliciti – dal Lawrence d’Arabia di David Lean a America, America di Kazan, non assume un preciso punto di vista, e il genocidio alla fine coincide con l’identità migrante, con la perdita delle proprie radici. Francamente un modo un po’ «facile» di guardare dentro a questa Storia.