Per noi moderni, abituati a vedere nei musei decine di sculture marmoree provenienti dalla Grecia antica e dall’impero romano, è difficile farsi un’idea delle centinaia di statue in bronzo che popolavano le città in questi paesi: nelle piazze, nei santuari, in edifici pubblici e in abitazioni private. La maggior parte di esse è andata perduta per via del recupero del metallo; ne restano poco più di un paio di centinaia, salvatesi grazie a eventi casuali: seppellite da una caduta di massi già in antico come l’Auriga di Delfi, oppure nascoste per impedirne la distruzione come probabilmente accadde alla Vittoria alata di Brescia, rinvenuta con altri bronzi in una intercapedine presso il Capitolium della città; talvolta sono state ripescate dai fondali marini, dove affondarono insieme a tutto il carico delle navi che le trasportavano, oppure ci se ne liberò per alleggerire l’imbarcazione: destini simili accomunano i celebri Bronzi di Riace, lo Zeus di Capo Artemision del Museo archeologico di Atene, l’Atleta di Fano finito al Getty Museum in California e la nave affondata al largo delle coste di Mahdia in Tunisia con tutto il suo prezioso carico destinato alla facoltosa clientela romana, solo per citare qualche caso noto.
I ritrovamenti delle statue antiche più celebri risalgono, con poche eccezioni, a prima del ventesimo secolo. Si prenda il Laocoonte, scoperto nel 1506 a Roma, sul Colle Oppio, nell’area degli antichi Orti di Mecenate; oppure l’Apollo di Belvedere, entrato poco più tardi nelle raccolte pontificie o ancora il Discobolo Lancellotti riproducente il discobolo bronzeo di Mirone, venuto alla luce nel 1781 sull’Esquilino. Spostandoci in Grecia, le sculture dei frontoni del tempio di Zeus a Olimpia emersero dagli scavi condotti dagli archeologi tedeschi nella seconda metà dell’Ottocento, così come quelle di Delfi furono ritrovate dai loro colleghi francesi. Il Novecento è stato più avaro di scoperte simili perché le grandi imprese archeologiche nei siti classici, come abbiamo visto, sono precedenti, ma inaspettatamente ha restituito una superba statua bronzea del generale romano Giulio Cesare Germanico. Nerone Claudio Druso, conosciuto come Germanico, fu un membro di primo rango della famiglia Giulio-Claudia, la dinastia che da Ottaviano Augusto (27 a.C. – 14 d.C.) fino a Nerone (54-68 d.C.) governò l’impero romano per poco meno di un secolo: sua madre era Antonia minore, figlia del triumviro Marco Antonio, e il padre Druso maggiore, fratello del futuro imperatore Tiberio; con Ottaviano Augusto Germanico si imparentò direttamente sposandone la nipote Vipsania Agrippina, nata dal matrimonio tra Giulia – figlia di Ottaviano – e il generale Marco Vipsanio Agrippa.
Nonostante queste discendenze dai lombi più nobili dell’impero, il suo nome dice poco anche a chi sappia destreggiarsi nell’intricatissimo albero genealogico della famiglia imperiale. Eppure, se egli non fosse morto prematuramente nel 19 d.C. ad Antiochia di Siria (oggi Antakia in Turchia) all’età di 34 anni, sarebbe diventato il terzo imperatore di Roma, succedendo allo zio Tiberio, divenuto poi suo padre adottivo. In tal modo il suo nome sarebbe rimasto nella memoria come quello del figlio Gaio, conosciuto come Caligola, imperatore dal 36 al 41 d.C.; del fratello Claudio, che regnò dal 41 al 54, oppure della notissima figlia Agrippina minore (15-59 d.C.), colei che poté vantare un legame diretto con ben quattro imperatori come nipote di Augusto, sorella di Caligola, moglie di Claudio e madre di Nerone.
Come la maggior parte dei personaggi più famosi dell’antica Roma, anche il volto di Germanico è conosciuto da alcuni ritratti sparsi in varie collezioni, il più fine dei quali è conservato al Louvre, perciò non fu difficile identificarlo quando una testa bronzea emerse ad Amelia nell’estate del 1963. Era il tardo pomeriggio del 3 agosto, e le pale della ditta Binnella stavano sterrando un terreno subito fuori Porta Romana, a poca distanza dalla cinta muraria in opera poligonale, sul lato sinistro del viale delle Rimembranze o via Ortana: i soliti lavori edilizi per ampliare un mulino, in questo caso. A un tratto, durante i lavori cominciarono a emergere alcuni frammenti di bronzo completamente schiacciati, tra cui emergeva una testa. Avvisato, l’allora soprintendente archeologo dell’Umbria Umberto Ciotti arrivò ad Amelia nelle prime ore del pomeriggio, verificando che i lavori di sbancamento avevano portato alla luce un altare funerario decorato con bucrani – le teste scarnificate dei buoi – e festoni, il parallelepipedo su cui era collocata una statua bronzea, con ancora un piede attaccato, un grande capitello decorato sui lati con trofei e alcuni blocchi squadrati in pietra. Purtroppo, quando Ciotti arrivò, non fu più possibile determinare la stratigrafia cui appartenevano questi reperti e a quale profondità furono rinvenuti, dato che il mezzo meccanico con cui si scavava era giunto a oltre tre metri di profondità.
Successivamente – sospesi i lavori di sbancamento – furono fatte ricerche nell’area e perfino nella pubblica discarica per assicurarsi che qualche frammento di bronzo non fosse stato inavvertitamente gettato via. I frammenti, pur schiacciati, permisero di ricomporre una statua bronzea: erano perdute le parti più fragili, come gli occhi e presumibilmente alcune parti aggredite dalla corrosione. I pezzi della statua comunque, anche quelli meglio conservati, avevano subito rotture, schiacciamenti e alterazioni, tanto che alcuni frammenti erano contorti, piegati in modo tale che non potevano essere attaccati o accostati tra loro.
La testa invece, a parte qualche deformazione alla base del collo, era in buone condizioni e le ciocche di capelli disposte sulla fronte con la caratteristica forcella in corrispondenza dell’occhio destro, dalla quale si dipartono verso sinistra e destra ciocche curve e un po’ appuntite che si congiungono con quelle ricadenti sulle tempie, permisero a Ciotti di identificare il ritratto di Germanico, basandosi sulla statua proveniente da Gabi, oggi conservata al Louvre. La sua ipotesi fu corroborata da altre caratteristiche fisionomiche tipiche come la gobba del naso, il labbro inferiore rientrante e il mento pronunciato. La corrosione del bronzo e le incrostazioni resero necessario un restauro che durò decenni, tanto che nel 1987 fu presentata solo la testa in una mostra temporanea ad Amelia. Finalmente nel 1998 la statua ricomposta fu esposta nelle sale del Museo archeologico di Perugia, finché ha trovato la sua collocazione definitiva nel Museo archeologico di Amelia, inaugurato nel 2001: furono creati supporti per i frammenti bronzei che non combaciavano più tra loro e in alcuni casi – come per la spada o la gamba sinistra – si provvide con dei calchi, mentre gli originali sono conservati in una sala adiacente.
La statua di Amelia rappresenta Germanico come generale con corazza, uno schema di tradizione greca, introdotto in Italia dopo la battaglia di Azio (31 a.C.). Sul torso è raffigurata in alto Scilla e in basso l’agguato di Achille a Troilo, mentre sul retro c’è un candelabro.
Al torso furono attaccate braccia, gambe e testa. La presenza all’interno dello scollo di punti di saldatura inadeguati ad ancorare il ritratto attuale, suggerisce che la testa originaria sia stata sostituita con quella di Germanico: motivi cronologici fanno ipotizzare che originariamente la statua portasse il ritratto di Caligola. La figura di Scilla serviva a illustrare la forza bellicosa di Roma sul mare, mentre la scena con Achille e Troilo poteva sia richiamare l’associazione con l’eroe greco, sia alludere alla morte prematura del giovane principe troiano Troilo, connesso così al grande rimpianto lasciato dallo stesso Germanico nel mondo romano. Ne consegue che il recupero del torso e la sua trasformazione in Germanico si daterebbe durante l’impero di Claudio, quando il fratello dell’imperatore continuava a essere ricordato e rappresentato. Nella nuova identità l’iconografia del torso fu rifunzionalizzata senza grosse difficoltà.
Attualmente, nel Museo archeologico di Amelia, prima di visitare la statua di Germanico, è possibile ripercorrere le tappe principali della sua vita e delle sue imprese grazie a una mostra istallazione immersiva da me curata e realizzata dalla Katatexilux di Raffaele Carlani, autore anche del video ricostruttivo di Ameria romana.