Spring Break forever! I roaring twenties di Baz Luhrman si presentano con la stessa estasi pulsante/demente dei festini sulle spiagge di Miami nel film di Harmony Korine. Centinaia di corpi giovanissimi, semi-perfetti, che vibrano all’unisono alimentati da inesauribili, spumeggianti, fiumi dorati –per Korine era birraccia, qui Moet Chandon- sulla note di un abile pastiche sonoro –invece di Cliff Martinez e del sound elettronico di Shrillex, in onore di Fitzgerald, Jay Z shakera jazz, hip op e Gershwin.

Il regista australiano di Strictly Ballroom, Romeo and Juliet e Moulin Rouge (serata d’apertura a Cannes 2001) insegue l’adattamento totale di un testo rimasto inespugnabile a molteplici «assalti» (incluso quello piuttosto insipido con Robert Redford, nel 1974). Di tante trasposizioni tentate negli anni, infatti, l’unica decretata come «riuscita» è stata Gatz, della Elevator Repair Company, una lettura integrale del testo (lo spettacolo durava più di otto ore) che, nel 2012, ha spopolato sul palcoscenico di New York.

Fan dichiarato di Gatz, Luhrman «attacca» il grandissimo piccolo romanzo dell’autore di St. Paul, armato di CGI tridimensionale, a cavallo di cineprese multiple, in continuo movimento e con una fastidiosa predilezione per le riprese dall’alto (ispirate pare a una precisa frase del romanzo), ma anche con devozione…… letterale – le parole dal libro (80mila copie vendute solo l’anno scorso. Scribner’s ne aveva pubblicate 23mila nel 1925, quasi tutte rimasero invendute), si scompongono infatti in caratteri galleggianti verso il pubblico, cortesia del 3D.

L’acerbo cugino dal Midwest Nick Carraway (Tobey Maguire) rimane il narratore della storia, anche se per qualche disgraziata ragione, Luhrman e il suo sceneggiatore di sempre Craig Pearce, scelgono di farne un alcolizzato di mezz’età, che rivisita quella famosa estate a Long Island, con Gatsby e Daisy, divisi tra West e East Egg e da una barriera insormontabile tra dna («siamo nati diversi. È nel sangue», dirà Tom Buchanan) scrivendola su ordine del suo medico curante.

Letterale anche l’uso di dettagli precisi del libro, come la scena (su schermo, va detto, piuttosto ridicola) in cui Gatsby tende la mano come per toccare la luce verde che brilla sul molo di Daisy, al dilà della baia. O l’immagine di Gatsby visto da dietro, solo che guarda lontano sull’acqua. Ma il successo di un adattamento non sta nella sua adesione totale al testo, quanto nella possibilità di coglierne un’essenza. In quel senso, il verdetto sul film di Luhrman è medio basso. Si tratta di un oggetto facilissimo da odiare (come hanno fatto tanti critici americani o alcuni colleghi all’uscita della proiezione di Cannes), ma che non si merita l’indignazione che ha suscitato.

In lui fa capolino Orson Welles – il mistero del self made man Charles Foster Kane, ma anche il trasformista Mr Arkadin, con i suoi megaparties. Le scene in cui ha spazio sono infatti le migliori -il suo primo incontro con Daisy (Carey Mulligan, troppo inerte, esistenzializzata, per la ragazza la cui voce «aveva il suono del denaro»), o il celebre dialogo con Nick sul passato che ritorna. [do action=”citazione”]Leonardo Di Caprio è un Gatsby molto più riuscito, complesso, di quanto non furono i suoi Edgar J. Hoover e Howard Hughes. E un Gatsby più dolorosamente fitzgeraldiano, internamente diviso, di quello timidamente introspettivo di Redford.[/do]

Curiosamente trattandosi di un film di Luhrman, le scene più fastose e piene di personaggi – le grosse feste alla casa di Gatsby (turrita come il castello di Disneyland), popolata da senatori, gangster, stelle del cinema e cantanti che sembrano a Cab Calloway risultano le più meccaniche, le meno ispirate. Visivamente in esse non c’è nulla che non avesse già fatto (meglio probabilmente) in Moulin Rouge. Il 3D non aiuta. Anzi, è difficile non pensare che «I folli anni venti» sarebbero stati molto più folli in due dimensioni, magari in bianco e nero (il libro è noto per la sua brevità, 180 pagine). Il Grande Gatsby (due ore e 23 minuti) è film «tanto» che però si sente poco. Luhrman cita diligentemente Fitzgerald ma gli sfugge la radicalità tranchant, la limpidezza di visione del romanzo e, cosa principale, la sua tragica, meravigliosa «americanità».