Ci volevano Giorgia Meloni e l’autonomia di Calderoli per vedere nella stesso foto un G20 di esponenti di centro e sinistra che, fino all’altro ieri, non avrebbero preso insieme neppure un caffè. Ieri invece è successo, con Rosy Bindi accanto a Maria Elena Boschi e Maurizio Landini, poco più in là il segretario di Rifondazione Maurizio Acerbo.

Una macedonia così ricca e diversificata da far sembrare il trio Schlen-Conte-Fratoianni qualcosa di ormai scontato, una falange macedone. Guai però a parlare di un Nuovo fronte popolare in salsa italiana o peggio di una nuova Unione come quella che Prodi mise insieme nel 2006, da Mastella a Turigliatto. Per il momento il G20 è unito solo dalla battaglia referendaria contro l’autonomia, e domani forse per dire no al folle premierato di Meloni, che neppure Renzi è riuscito a digerire.

Un fronte del No che è già più largo di quello visto in piazza Santi Apostoli a metà giugno, visto l’arrivo dei centristi, ma che di una coalizione non ha neppure le sembianze. Però può fare male alle destre, e per ora tocca accontentarsi. Anche perchè, come ha detto la leader Pd, «se fermiamo l’autonomia cade anche il premierato».

Schlein, la più «testardamente unitaria» di tutti i leader presenti, è la prima ad essere consapevole- e lo ha detto ieri alla direzione Pd – che il fronte referendario non è che un primissimo passo, e che la Francia non deve essere presa a modello visto che lì il barrage anti-destra ha il sapore di un «muro contingente», quasi emergenziale. La leader Pd ribadisce che la proposta della futura alternativa deve essere molto più «per» che non «contro», partendo dai temi su cui c’è condivisione come salario minimo e sanità per poi provare ad allargare la «tessitura» anche a temi più divisivi.

«Vediamoci più spesso, mescoliamo le nostre battaglie», dice alle altre opposizioni indicando il percorso fatto nei tanti Comuni vinti come una via da seguire ,e lanciando una nuova «estate militante» per i dem. «È il tempo dell’alternativa, noi ne siamo il perno, non abbiamo velleità egemoniche ma basta coi veti», insiste Schlein, consapevole di avere sulle spalle la principale «responsabilità» del tentativo unitario.

Anche Rosy Bindi, una che di coalizioni se ne intende a partire dal primo Ulivo, ieri in Cassazione a depositare la richiesta di referendum a titolo personale, ha usato tanta prudenza: «Siamo qui per evitare lo sfregio della Costituzione, se da questo dialogo nasce anche un’ipotesi di alternativa ben venga. Ma in Italia il frontismo non ha mai portato bene, serve una visione alternativa a quella della destra per essere credibili». Al netto dei centristi sempre sfuggenti, il più convinto che occorra tenere il freno a mano è Conte, il primo della truppa a dire che – anche per ragioni tattiche e interne al M5S- senza un accordo sui temi concreti si va poco lontano.

E tuttavia, a due anni esatti dall’estate terribile del 2022 quando le divisioni tra i progressisti regalarono l’Italia a Meloni, sarebbe ingiusto negare che si respira un’aria nuova: prima la piazza romana del 18 giugno, poi la foto alla festa Anpi a Bologna di lunedì scorso, ieri il ressemblement davanti alla Cassazione, passando per una iniziativa comune in settimana sulla raccolta firme per il salario minimo e per un atteggiamento assai collaborativo tra Pd, M5S e Avs giovedì in Parlamento sulle mozioni per il riconoscimento della Palestina.

Se per Pd e Avs, che hanno avuto successo alle europee, si tratta di una spinta naturale, per i 5s lo è assai meno: eppure in questo mese post elezioni Conte non ha rinnegato la collocazione nel fronte progressista, anzi l’ha corroborato entrando a sorpresa nel gruppo Left all’europarlamento. Quel gruppo ha idee assai diverse da quello socialista sulle armi all’Ucraina e ieri, in direzione Pd, l’ex ministro della Difesa Guerini ha avuto gioco facile nel dire che «per essere credibile una coalizione deve avere un minimo comune denominatore su questioni essenziali come la politica internazionale». E che quindi ora inizia «un lungo e paziente lavoro».

«Il difficile arriva adesso, è proprio così, serve un’opera di ingegneria», ha confermato Schlein. E Orlando ha avvertito: «Sul posizionamento internazionale non solo la coalizione, ma anche il Pd può sbandare». Sulle tonalità di atlantismo anche tra i dem le differenze non mancano. E se Renzi viene dato in riavvicinamento al centrosinistra, Calenda è sempre più lontano: «Un’accozzaglia populista e largamente filoputiniana con una spruzzata di centrino opportunista non serve a nulla», il suo de profundis sulla foto del G20.