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«Il futuro sarà vegan»

Intervista Una conversazione con il filosofo Leonardo Caffo: «Dobbiamo ripensare al nostro rapporto con la vita, a partire dalla produzione»

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 7 novembre 2019

Leonardo Caffo, generazione 1988. Un anno dopo cadeva il muro di Berlino. Quindi si dice appartenente ad una generazione postideologica.

Eppure lei è animalista, vegano, parrebbe filosofo, insomma: un utopista del proprio tempo. Come mai?

Distinguerei gli ideali dalle ideologie, senza risultare retorico. Io credo che del marxismo, dato che cita il muro, sia fallito sostanzialmente tutto (chi parla lo dice anche con un po’ di tristezza) tranne l’idea che la realtà la si studi per cambiarla, non per contemplarla. Poi non so se sono utopista, dall’affrontare certi temi ho avuto più problemi che vantaggi in effetti: con l’università, con gli odiatori seriali in rete, con chi in modo più o meno frequente cancella o modifica con sarcasmo la voce che mi hanno fatto su Wikipedia, anche con chi crede che dal fare attivismo si guadagni qualcosa. Il che, più che rendere utopista me o tanti colleghi filosofi e curatori visionari, penso a un nome su tutti come Emanuele Coccia che sta ripensando la vita a partire dalle piante (anche un suo collega dunque, direi), rende più che altro la maggior parte dei sopravvissuti alla caduta del muro figli di un’idea paradossalmente pre-marxista: alla realtà bisogna adattarsi e chi non lo fa, va combattuto. Qualcuno ha detto «Bentornato Marx», ma forse si riferiva a Groucho dato la farsa che stiamo vivendo.

Quindi in un modo o nell’altro il marxismo è sopravvissuto ai tentativi di trasformarlo in realtà e prosegue ad alimentare la riflessione contemporanea?

Il Movimento Cinque Stelle sostiene che andrebbe ringraziato per aver trasformato la rabbia sociale in corridoio democratico: non capiscono che proprio per colpa loro il sistema ha tenuto, e dunque sono la quintessenza dell’establishment e dell’idea per cui lei può definire utopista me, e io sciagurati loro. Anche perché oggi sarà anche caduto il muro di Berlino, ma credo sia più grave che è spuntato quello del Messico: chi lo sa a cosa è davvero appesa la mia generazione? Forse non ci resta che pensare a un mondo senza confini, per farli saltare davvero.

Il suo saggio Vegan (Einaudi) è stato molto apprezzato e letto. Lei vi spiega le sue idee e la sua condotta di vita, che non sempre corrisponde all’idea generale che oggi spesso si ha del vegano, ossia di un estremista alimentare. Può cercare di spiegare, in breve, il suo pensiero?

Non è un saggio alimentare, e io stesso non mi definisco vegano per quello che è il significato da dizionario della parola. Senza pretendere di fare chissà che, sto cercando di costruire un sistema filosofico che riguardi soprattutto la forma di vita che siamo e che possiamo diventare. Parte di questo sistema impatta sulle pratiche di vita, e non solo, e sappiamo come oggi biodiversità o ecologia siano diventate parole decisive ma senza nessun impatto concreto sul reale. Nel libro che cita, più fortunato nelle discussioni specialistiche o nelle rassegne stampe che nelle vendite, sostengo che se non attraversiamo il senso profondo della parola vegan tutte queste discussioni restano retoriche e fallaci.

Cosa dobbiamo fare dunque?

Dobbiamo cambiare il nostro rapporto con tutta la vita, animale e vegetale, ripensare i metodi di produzione alimentari e suo materiali, lavorare con il design e con la moda, con la grande industria, con l’architettura, e con la politica progressista: non stiamo più parlando di un tema che riguarda gli animalisti ma la società civile, una grande riconversione produttiva e di pensiero all’epoca dell’antropocene. A Los Angeles è stata inaugurata la prima Vegan Fashion Week, ed è un bene: si è diventati fascisti per moda, onestamente credo sia meno innocuo diventare vegani per le stesse ragioni. Bisognerebbe solo capire che le parole cambiano senso con l’evoluzione storica, e che oggi vegan non significa dieta ma futuro. Il futuro di tutti; visto che conosco il suo lavoro, me lo faccia dire: alberi compresi.

«Fragile umanità», «Il bosco interiore», «Così parlò il postumano», «La vita di ogni giorno», «Adesso l’animalità» sono alcuni dei suoi titoli più letti, con riferimenti più o meno evidenti alla storia della letteratura e del pensiero filosofico. Che cosa la spinge, ogni volta, a mettersi alla prova su un tema? Magari anche particolarmente complesso o discusso, come appunto il veganesimo, l’animalismo, il postumano? Quale sarà il prossimo passo?

Io più che filosofo, ormai forse anche per incompetenza allo specialismo che la filosofia accademica (e diciamolo, abbastanza inutile) richiede, sono curatore. La mia critica all’Università, mi faccia recitare Coccia nella sua risposta su Repubblica ad Alessandro Baricco, in tal senso è totale: i professori di filosofia di oggi educano gli allievi ai sogni di Nietzsche senza trasmettere nulla di ciò che sta capitando fuori. In tal senso io, personalmente, sono mosso dalla curiosità per il contemporaneo, dalle sue forme e anche dalla messa in discussione delle retoriche che lo contraddistinguono. In primis la rottura reale dei confini disciplinari, non una sterile interdisciplinarità ma proprio una teoria a macchia di leopardo: saccheggiare dove serve. Adesso sto lavorando a tre libri, qualche mostra, una serie di progetti legati all’impresa e al design connessi anche all’istituzione dove svolgo la maggior parte del mio lavoro di ricerca: la Nuova Accademia di Belle Arti a Milano. Sono tre libri legati a tre temi, uno sarà un romanzo (non proprio il primo, ma quasi); i temi sono la semplicità, il collegamento tra società trasparente realizzata e dittatura (quello che avviene oggi in Europa e Nord America), e la filosofia raccontata dalla prospettiva di un cane (cosa significa raccontarla senza quella che Kafka definiva «angosciosa posizione eretta»?) . Sono felice perché a furia di lavorare a temi apparentemente strampalati nel frattempo quei temi sono diventati di discussione comune, e oggi mi ritrovo a parlarne come conduttore in radio o come partecipante a feste di pubblico interesse.

Quindi non sarà la bellezza a salvarci, ma la capacità di mischiare, miscelare, transitare da un mondo all’altro? Di metterci costantemente in forse e alla prova?

Mi faccia citare la mia partecipazione alla giuria di Lovers, il festival del cinema QLGBT di Torino grazie a Irene Dionisio, perché credo che i gender studies siano uno dei terreni più fertili da un punto di vista intellettuale e politico del nostro presente. Il futuro, se tutto va bene, non sarà più in mano a quelli come me: maschi, etero, benestanti, occidentali. Cosa spinge, mi diceva, a mettersi sempre alla prova? L’idea che quello che hai fatto fino a ora non basti, o addirittura come nel mio caso ti faccia anche abbastanza schifo: rileggo miei vecchi libri o articoli, talvolta addirittura le prime mail mandate agli editori o ai giornali e mi impressiona tutto. Mi giro e dico «ma l’ho fatto davvero io, questo?»: e forse qui sta un insegnamento anche un po’ universale, essere sempre insoddisfatti di ciò che siamo stati significa costruire immagini migliori delle azioni che faremo e dei pensieri che potremo accarezzare in futuro. Se poi andrà bene forse anche noi, caro Tiziano Fratus, saremo liberi come i suoi amati alberi.

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