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Il futuro come spazio ecologico di decompressione dal presente

Il futuro come spazio di decompressione del presente in cui l’essere umano prende le distanze dal tempo lineare, per sperimentare con più libertà qualcosa che ancora non esiste. Va da […]

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 21 dicembre 2023

Il futuro come spazio di decompressione del presente in cui l’essere umano prende le distanze dal tempo lineare, per sperimentare con più libertà qualcosa che ancora non esiste. Va da sé che l’immaginazione (in tutta la sua potenzialità) risulta essere strettamente legata alla finzione, alla fantascienza, ad una «geografia» dai toni pseudoscientifici a cui indirizzare – come in Hope – un ipotetico concetto positivo di ottimismo e speranza, di riscrittura degli spazi ecologici e di «un’era di consapevolezza globale» tout court.

TERZO E ULTIMO CAPITOLO della trilogia Techno Humanities, la collettiva Hope curata da Bart van der Heide e Leonie Radine in collaborazione con il musicista, teorico e scrittore DeForrest Brown, Jr. «invade» l’intero edificio (ascensore incluso) di Museion a Bolzano (fino al 25 febbraio 2024) con i lavori di artiste e artisti internazionali tra cui Sophia Al-Maria, Ei Arakawa, Trisha Baga, Neïl Beloufa, Black Quantum Futurism, Tony Cokes, Irene Fenara, Petrit Halilaj, AbuQadim Haqq, Andrei Koschmieder, Maggie Lee, Lawrence Lek, Nicola L., Linda Jasmin Mayer, Beatrice Marchi, Bojan Šarcevic, Suzanne Treister, Ilaria Vinci, LuYang, insieme ad un nucleo di opere provenienti dalla collezione stessa di Museion (Allora & Calzadilla, Shusaku Arakawa, Ulrike Bernard & Caroline Profanter, Shu Lea Cheang, Tacita Dean, Sonia Leimer, Ana Lupas e Riccardo Previdi).

È PARTE DEL PROGETTO ANCHE la pubblicazione di un’antologia di testi critici (Hatje Cantz) e, in collaborazione con Transart, la realizzazione della prima performance in Italia del coreografo e danzatore Trajal Harrell con l’ensemble della Schauspielhaus di Zurigo. Nel dialogo globale attivato dallo spazio museale concepito come «luogo per costruire il mondo» – come afferma Leonie Radine – le strategie politiche dell’archiviare, collezionare, scrivere e formulare ipotesi critiche a cui si riferiscono tutte le opere sono accompagnate dalla musica che è veramente una sorta di colonna sonora in cui immergersi completamente, soprattutto con le «visionarie» sonorità elettroniche e techno nell’intero secondo piano. The Earth Archive è dedicato al mito afrofuturista del regno sottomarino di Drexciya, simbolico «black exodus technology» in cui confluiscono alcuni brani del libro di DeForrest Brown, Jr. Assembling a Black Counter Culture (2022), sulle tracce della storia della musica techno negli anni ’80 da Detroit a Berlino, insieme al suo ultimo album Techxodus (2023) e ai suoi mix The Myth of Drexciya (2023) e Stereomodernism (2020) in dialogo con le 41 pitture digitali di AbuQadim Haqq, autore dell’icona della mostra Hope il cui design è firmato da Studio Mut di Bolzano, nonché di graphic novel e copertine di album.

SONO ESPOSTI ANCHE 73 DISCHI in vinile della collezione di dj Veloziped-Walter Garber, insieme alla corrispondenza originale (fax) – Drexciya Scans – fra Tresor e AbuQadim Haqq, Mad Mike e James Stinson. In altri spazi del museo è riconoscibile, invece, la voce inconfondibile di Oum Kalthoum: nel film di 26 minuti Tender Point Ruin (2021) di Sophia Al-Maria, è tra gli evocativi frammenti di memorie personali e visioni di paesaggi lunari: «Un’ode dolceamara all’arte, alla fantascienza, alla poesia e alla spiritualità, ma anche alla collettività, alla transcorporalità e a ciò che accomuna nelle differenze».

COME UNA CALAMITA, poi, il ritornello reiterato di Ain’t Nobody cantata da Chaka Khan avvicina all’opera Sentimentality is the Core (2018) di Bojan ŠarCevic, mentre una sonorità da videogame avvolge l’installazione Electromagnetic Brainology (2017) di LuYang. Tra citazioni da Star Trek e un’iconografia fantascientifica poetica come le Pénétrables (1996/2012) di Nicola L. con le tele indossabili del sole e della luna, s’intercetta anche il lavoro di Suzanne Treister che immagina una serie di musei del futuro dedicati «all’estasi cosmica», alla «telepatia meccanica» o all’«impercettibile suono degli asteroidi che diventano dati», mentre Ana Lupas realizza il patchwork di stoffa Coat for reaching the Heaven (1962/64), dove il suo «cappotto per raggiungere il Paradiso» è fragile come l’esistenza ma allo stesso tempo trasformabile, quindi per questo giocosamente eterno.

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