Il frutto proibito di Cleo T. chanteuse parigina benedetta da Robert Wyatt
Musica «Volevo recitare in teatro, ma la canzone mi ha fatto cambiare idea», spiega la cantante al suo album d'esordio prodotto da John Parrish
Musica «Volevo recitare in teatro, ma la canzone mi ha fatto cambiare idea», spiega la cantante al suo album d'esordio prodotto da John Parrish
Il sound check è finito. Cleo T, fascia elastica che le spazza i capelli dalla fronte, se ne sta seduta a un tavolino nello spazio delle Officine Corsare, punto nevralgico sulla mappa della musica indipendente torinese. Pizzica la erre quando saluta con un «buonasera», centellinando sabaudo vino rosso in compagnia di Valentin Allmighty (nome d’arte, si presume).
In microformazione, lui al violoncello, lei alle tastiere e all’autoharp, l’artista parigina ha presentato a dicembre in Italia, negli spazi di tanti locali come le Officine, Songs of Gold & Shadow (Folkwit Records/Moonlight-Audioglobe), disco di esordio con una bella storia alle spalle. Bella come la semplicità che sprizza dai pori musicali di Cleo, radici corse e italiane, mentre si racconta senza riserve, armata di entusiasmo e sorprendente maturità. Chi è Cleo, da dove e da che cosa è nata quella determinazione che l’ha portata ad avere in Robert Wyatt il suo mentore e in John Parish il suo produttore; a decidere di creare una propria etichetta e una propria distribuzione?
Un sorso di vino rosso scioglie le chiacchiere «Canto da quando sono bambina, ma non ho mai avuto un insegnante. Sono un’autodidatta, che per un certo periodo ha visto la musica quasi come un frutto proibito. Forse per questo mi ero indirizzata verso il teatro. Poi un giorno ho deciso di mettermi in gioco. Ho iniziato a cantare, a suonare il teremin, il piano, la tromba, la chitarra, con diversi gruppi. E un altro giorno ancora mi sono resa conto di poter provare a costruire un mio percorso personale, un mio progetto, a scrivere brani miei».
Fin dagli esordi, dai primi tentativi, Cleo, e ci tiene a sottolinearlo, non vede se stessa nei panni del compositore tradizionale. Sceglie, invece di mettere nella sua musica la pittura, perché ha studiato a lungo storia dell’arte; la letteratura, la poesia. Si paragona a una carta assorbente. Non si identifica con un genere preciso. Dice con un sorriso, ma anche con molta serietà «Non sono abbastanza musicista per decidere di scrivere un pezzo un po’rock, o un po’blues. Preferisco far uscire le cose che nascono dall’ascolto di me stessa, dal silenzio che le precede».
Le fonti di ispirazione, i riferimenti, sono comunque inevitabili. Di nuovo Cleo li ha trovati, ed escono allo scoperto nell’album, fuori dall’ambito puramente musicale. Sono gli antenati ad aver dettato Trista stella, cantato in un italiano tanto ammaliante quanto lontano dalla purezza della pronuncia? Certamente. Ma non basta «Penso all’Italia come a un Paese dove il sentimento della tragicità, che non va confusa con la tristezza, è una componente molto forte della vita quotidiana. Una componente che si traduce, ad esempio, nel cinema neorealista; in registi quali De Sica e Fellini, che hanno saputo spalancare insieme le porte della realtà e quelle dei sogni».
La lingua dei suoi concerti è l’inglese, di cui è buona padrona. Ma Trista Stella, accanto ad altri sconfinamenti nell’idioma tedesco, derivano da un’ulteriore e ben precisa convinzione di Cleo «Amo il senso musicale che riesce a darti una lingua sconosciuta. Da piccola ascoltavo mio padre cantare pezzi blues, e io mi inventavo le parole pur di seguirlo. Mi piaceva moltissimo. I surrealisti affermavano che bisognerebbe impedire a un poeta di scrivere nella propria lingua, perché è un freno. Usare parole che non capisci fino in fondo ti permette di esprimere liberamente la tua creatività».
Non finisce qui. Prima di salire sul palco, Cleo aggiunge che la musica è un colore sprigionato dallo strumento su cui fa scorrere le dita; è il rintocco senza preavviso delle campane della chiesa e il verso degli uccellini che le fanno compagnia in casa. Due sonorità «incluse» nel demo consegnato a Wyatt durante un passaggio parigino del compositore mesi e mesi fa, e cui fanno riferimento le parole di Wyatt stesso per la ghost track che chiude l’album, So Long Ago Yestarday. Quando le luci si accendono, la ragazza con la fascia elastica sulla fronte è un ricordo, o forse non è mai esistita. Al suo posto c’è Cleo. Che nell’abbigliamento, nell’acconciatura, nel trucco, ironizza e gioca con l’esotismo, le ridondanze barocche, i richiami soltanto accennati al punk e al dark. Cleo che con Valentin dipinge il suo affresco sonoro grazie ai colori decisi e alle infinite sfumature della voce, libera e imprigiona il respiro delle tastiere, lascia che il violoncello comandi per metterlo subito dopo al servizio dell’arpa elettrica. Cleo che apre alla Kurt Weil in Song to the moon, batte e leva di mani per il blues di Little Girl Lost, fa volare i suoi uccellini inseguendo la chitarra di Columbine, diventa gola di cristallo in Dead and Gone. Ne risentiremo parlare. Se no, perché mai il mago Wyatt e il mago Parish si sarebbero scomodati?
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